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CAMPOBASSO

1 - Città giardino

Già i Romani avevano avuto in mente l’unitarietà nella progettazione della rete viaria tra strade extraurbane ed urbane; si prenda il caso di Aesernia dove la via Latina diviene il decumano della città attraversandola. Questo, però, c’entra poco con il topos che vogliamo affrontare il quale è quello dei viali piuttosto che della viabilità tout court. Un tema settoriale, sì, ma non secondario qui a Campobasso la quale è stata chiamata “città-giardino” proprio per le sue vie e piazze alberate, almeno un tempo.

Ad ogni modo, qualcosa c’entra con la questione che intendiamo trattare la considerazione iniziale perché a causa dell’espansione insediativa, la quale ha riguardato i centri maggiori, sono state inglobate nell’area urbanizzata porzioni delle arterie di accesso ed essendo quest’ultime, poiché a servizio dei centri maggiori di cui sopra, delle Statali esse sono contornate da filari di alberi sempreverdi come i viali. È molto bello l’ingresso a Casacalenda della Sannitica con il suo lungo rettilineo con ai fianchi una lunga teoria di pini ad ombrello e appunto perciò ombreggianti tanto da farlo assomigliare ad un viale. Lo stesso percorso stradale da Napoli a Termoli passa per il capoluogo di regione in cui nel tratto coincidente con l’attuale via Trivisonno le piante storiche sono state tagliate per sostituirle con delle nuove, appena messe a dimora, mentre rimangono lungo via Mons. Bologna che è il suo seguito. Tale via è denominata viale e propriamente in quanto ci sono sia le essenze arboree, peraltro con una larga chioma capace di fornire ombra ai passanti, sia il marciapiedi e quindi la sicurezza a chi la frequenta, sia è pianeggiante, morfologia del suolo favorevole alle passeggiate. Si è nominato il marciapiede includendolo tra i requisiti per essere un viale, una componente della sezione stradale ad un tempo, qui da noi, antica, vedi i crepidoma dei decumani di Bovianum e di Altilia, e moderna poiché fino al XIX secolo le nostre strade erano a malapena pavimentate, figurarsi se avevano un marciapiede. Non siamo ancora al dunque, lo si è solo sfiorato, che è quello preannunciato nell’incipit, cioè la continuità tra la viabilità esterna e quella interna all’abitato, con particolare, lo si è aggiunto un attimo dopo, attenzione ai viali. La visione di un rapporto organico tra gli assi di circolazione in seno e al di fuori del nucleo abitativo la ebbe il Wan Rescant il cui piano per l’ampliamento della città, antagonista a quello proposto da Musenga sulla base del quale si realizzò il Borgo Murattiano, prevedeva tre, diciamo così, vialoni che si dipartivano dal palazzo del Decurionato, forse nel sito dell’odierna Prefettura, la cui lunghezza era indefinita. Essi sarebbero stati gli elementi ordinatori dell’assetto urbanistico e, nel contempo, direttrici territoriali, coinvolgendo la campagna circostante.

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Niente di originale in quanto questo, il tridente, è uno schema classico dell’urbanistica barocca, applicato per la prima volta alla reggia di Versailles e posteriormente a quella di Caserta dove l’asta centrale è la linea di congiunzione diretta tra la capitale del regno Borbonico e la residenza “fuori porta” dei regnanti. Siamo nell’epoca dell’Assolutismo e la raggiera viaria che ha quale fulcro la sede del potere, monarchico nel caso delle dimore reali o municipale a proposito della casa dei Decurioni nel polo di comando della Provincia di Molise, sembra voler simboleggiare il controllo del territorio esercitato da queste istituzioni. Siamo di fronte, le arterie disegnate dal Wan Rescant, a poco più che linee ideali, una programmazione sulla carta invece che una pianificazione sul terreno, e noi adesso ci intratteniamo su due loro caratteristiche, la rettilineità e la larghezza, le quali hanno attinenza con la tematica dei viali che sono dotati di ambedue i connotati e sempre senza dimenticare che ci siamo prefissi di vedere il legame tra i canali viari presenti nel contesto cittadino e quelli che corrono nell’agro. Il primo carattere, quello di essere dritti, lo si ritrova nei viali dei parchi pubblici, pure nella Villa De Capoa, progettati sul modello del “giardino all’italiana” e Campobasso, correggendo in qualche modo la definizione riportata in precedenza, è per intero, quantomeno il Nuovo Borgo, una “città-giardino all’italiana”. In campagna nelle zone collinari è impossibile utilizzare la riga per progettare i percorsi i quali qui sono necessariamente curvilinei. Tra questi vi è la strada che congiunge Ferrazzano alla “capitale” della regione, la quale ha buone argomentazioni per farsi riconoscere quale viale, ma che di buon grado accettiamo di chiamare pista ciclabile, un nome che fa tendenza. Nessuno di tali argomenti, va detto, da solo basterebbe, è il loro insieme che ci permette di attribuire ad essa la qualifica di viale: c’è la piantumazione di platani al bordo i cui rami formano una cupola vegetale che scherma dal sole, c’è il marciapiede, il vialetto pensato per le bici e utilizzato soprattutto dai pedoni rialzato dalla sede carrabile con il suo traffico costante di pendolari causa di qualche disturbo acustico, c’è l’amenità del passaggio, c’è la superficie piana su cui si sviluppa. Ciò che la differenzia dal resto dei viali è il suo essere planimetricamente movimentata per le diverse curve nel suo svolgimento. Se è un viale allora è un viale di un giardino non più all’italiana, bensì all’inglese, lo stile del “pittoresco” con il quale si cerca di ricreare, negli spazi a verde, angoli non geometrici evidentemente di natura non addomesticata, se così si può dire o addirittura selvaggia. I tragitti naturalistici hanno traiettorie mosse con aperture visuali sempre differenti e ciò rende stimolante la loro frequentazione. Il secondo dei caratteri di cui sopra richiesto ai viali, che posseggono sia quelli di Wan Rescant sia quelli, attuati, di Musenga è l’estensione in senso trasversale e ciò non per favorire le passeggiate essendo un dettato dei propugnatori della nuova scienza nata a fine Settecento, l’Igiene, bensì per prevenire i contagi prodotti dall’affollamento nei luoghi collettivi e per la migliore insolazione e aereazione degli alloggi che su essi prospettano, accorgimenti legati a preoccupazioni di ordine sanitario che si giustificano negli agglomerati interessati dalla Rivoluzione Industriale e che non guastano anche da noi. Infine, visto che oggi appare retrò proporre la costruzione di viali e, se per fare breccia occorre chiamarli piste ciclabili va bene denominarli così.

2 - Ecologia urbana

«La città a 15 minuti» è un obiettino ormai comune a molte città europee; tra i posti raggiungibili nel raggio di un paio di kilometri dalla propria residenza vi devono essere anche gli spazi verdi, non solo le attrezzature di uso collettivo quali le scuole, i presidi sanitari di base, le fermate dei mezzi di trasporto pubblico e così via. Nel capoluogo del Molise tale traguardo è davvero alla portata di mano, o meglio, dato che trattasi di percorrenze pedonali, di piede per quanto riguarda il verde, meno, probabilmente, per altre utilities (con la chiusura della Casa della Scuola a via Roma gli abitanti del centro storico non hanno più un istituto di istruzione elementare nelle vicinanze). In pressoché ogni quartiere è prevista una superficie a verde per la ricreazione all’aperto: il Quartiere CEP ha il Parco dei Pini, il cosiddetto Borgo Murattiano, l’areale focale dell’insediamento abitativo, ha in appendice la Villa De Capoa, il primo parco in assoluto di Campobasso, il borgo medioevale è contiguo alla Collina Monforte del cui piano di fruizione è stata realizzata finora solo la Via Matris, il quartiere S. Giovanni ha il Parco di Via Lombardia e, in ultimo, per il quartiere Vazzieri il PRG ha previsto nella Zonizzazione la Zona Verde nel vallone del torrente Scarafone.

Non abbiamo nominato a caso quest’ultimo come ultimo caso, lo abbiamo fatto perché è un caso a parte. La sua condizione attuale di luogo selvatico, non un luogo bello e pronto per lo svago, ci spinge a riflettere su cosa si debba intendere per verde urbano. Se è pacifico che la presenza della vegetazione in ambito cittadino è indispensabile in quanto utile per la purificazione dell’aria, per la riduzione del rumore e per il miglioramento estetico dell’abitato non vi è una condivisione unanime su quale tipo di verde urbano prediligere, se non sullo stesso concetto di verde urbano. Vi è una distanza notevole tra le due concezioni di verde urbano, da una parte quella di superficie funzionale allo svolgimento di passeggiate anche in bici, la pista ciclabile verso Ferrazzano, al picnic, le aree attrezzate in località Foce e a Montevairano, al gioco dei bimbi, il giardino intitolato a B. Musenga, ecc. e, dall’altra parte quella di ambiente naturale, cioè di uno spazio di verde non “addomesticato” e, pertanto, con un alto livello di naturalità che è poi lo stato di fatto del corso iniziale dello Scarafone. Da un lato, lo si ripete, le qualità ecologiche e dal lato opposto le qualità funzionali all’intrattenimento en plein air. La natura spontanea ha suscitato sempre sentimenti di paura, o quantomeno inquietudine che la cittadinanza, messa alla prova, di fronte a lembi di territorio inselvatichito a ridosso del territorio urbanizzato, di nuovo la forra dello Scarafone (lo stesso nome, del resto, suscita repulsione); qui si annidano, la prova di cui sopra, animali indesiderati, all’ordine del giorno sono i cinghiali trovati a scorazzare in ore notturne tra le strade periferiche (recenti avvistamenti vi sono stati a via Ungaretti e via Leopardi, ambedue vie del quartiere Vazzieri).

Alla natura “disordinata” incontrollata, nonostante sia in possesso di elevata biodiversità, preferiamo la natura ordinata. Un bosco in città è apprezzato se è un bosco “artificiale”, la pineta dei “monti”, con i pini che seppure si sono naturalizzati tanto da far rientrare questo sito nella Rete Natura 2000 allineati su gradonate rimangono una specie alloctona. Una piantagione di conifere ha poca capacità di rinnovarsi, mentre una formazione boschiva originaria (si badi bene non si è detto primigenia perché da noi non ve ne sono), prendi il Bosco Faete il quale per la sua prossimità con l’agglomerato insediativo può considerarsi un parco urbano in fieri, è maggiormente stabile essendo in grado di riprodursi; la stabilità è un valore ecosistemico il quale si aggiunge a quello della biodiversità per la varietà di essenze arboree che lo compongono. Non è solo questa pinetina ad essere opera della mano dell’uomo-giardiniere in quanto lo sono evidentemente i, tutti, tanti giardini che stanno all’interno della città-giardino nostrana, oppure gli ormai ex-giardini in quanto parzialmente pavimentati, da Villetta Flora a piazza Cesare Battisti a piazza Cuoco fino a piazza Vittorio Emanuele III. L’arte del giardinaggio reprime, piuttosto che governarlo, il dinamismo, il, per così dire, istinto primordiale del mondo vegetale ad evolversi fino a raggiungere un assetto stabile, del quale si è parlato poco fa; tale tendenza evolutiva si manifesta nelle aree vegetate di neo-formazione con stadi successivi di crescita come si coglie in quella a particella di terreno alberato che sta alle spalle del complesso parrocchiale Mater Ecclesia, una specie di selva, magari, contraddicendo il Poeta, non aspra e forte. Si è discusso finora di natura in città, sia essa natura naturans sia essa natura naturata come direbbero gli antichi, riferendosi costantemente a fatti areali, pure l’aiuola nel suo piccolo lo è, si indica lo spartitraffico all’incrocio tra le vie Mazzini, XXIV Maggio, IV Novembre, e, però, esistono anche episodi naturali puntuali, gli alberi, tra l’altro numerosissimi. Essi sono particolarmente graditi nei contesti urbanistici per i benefici che offrono compreso quello, non solo per l’ombreggiatura, dell’attenuazione delle “ondate di calore”, un’emergenza di Protezione Civile, cui Campobasso è soggetta caratterizzata com’è da un clima di tipo continentale con estati con punte di caldo eccessivo e inverni con giornate assai rigide. La parola d’ordine attuale nei provvedimenti governativi non è tanto la forestazione urbana quanto la messa a dimora di essenze arboree singole (o, perlomeno, non tagliarle come si è fatto lungo via Trivisonno, decisione forse legata al loro rischio di caduta causa vetustà). È una preziosa eredità quella che ci è stata trasmessa, e che dobbiamo tenerci ben cara, dei lecci che bordeggiano il corso principale, dei pini d’Aleppo, dei tassi, delle sequoie, in verità ora solamente una, punteggianti l’espansione ottocentesca, un verde puntiforme con tanti puntini che sommati insieme formano una discreta chiazza verdeggiante.

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3 - I Murales

Campobasso si è colorata, ma non si è messa un abito in tinta unita, bensì policromatico. Non è stata, comunque, solo la nostra città a volersi dare una veste a colori, perché è invalso l’uso di colorare gli ambienti urbani un po’ dappertutto. Vi è stato nel mondo contemporaneo una forte affermazione del colore. Si è detto volutamente contemporaneo e non moderno, perché l’architettura moderna, quella “razionalista”, non correnti architettoniche, rimaste minoritarie, che si ispirano a Gaudi, alle sue fantasmagoriche opere estremamente vivaci anche dal punto di vista coloristico, rifuggiva dalla colorazione dei prospetti. A cominciare dai grattacieli in ferro e vetro nei quali non si può, addirittura, parlare di facciate fino agli edifici in cemento a faccia vista che proprio perché tale, è evidente, non ammette la tinteggiatura. Per Adof Loos, uno dei maestri delle Avanguardie Artistiche del Novecento, l’”ornamento è delitto” e nell’ornato va sicuramente ricompresa la pitturazione decorativa dei fronti di un fabbricato.

Per le coloriture non va meglio nei manufatti in stile “mediterraneo” (perché ispirato alle casette dei villaggi dei pescatori dell’Egeo), quelle di cui si è parlato prima sono in International Style, che spuntano lungo le coste, tutti rigorosamente bianchi; esempi se ne vedono nelle villette turistiche di Campomarino Lido e questa è una tendenza che è durata fino ai nostri giorni, per cui il complesso per vacanze sorto di recente tra Petacciato e Montenero di Bisaccia con i blocchi edilizi tinteggiati l’uno differentemente dall’altro appare, per certi versi, eversivo. Macchie di colore punteggiano più l’agro, anche se essendo l’intento quello di mimetizzare le costruzioni nel contesto paesaggistico, non si sarebbero dovuto notare, ma tant’è, cioè una contraddizione in termini, piuttosto che l’agglomerato urbano: tetti verdi nei capannoni per polli, pali metallici dell’elettricità bruni per richiamare il legno, piloni di viadotti dipinti con tonalità che richiamano, in modo da confondersi con esso, quelle del suolo in cui sono impiantati. Si dimenticava di dirlo, ciò in ossequio alle prescrizioni della Soprintendenza ai Beni Culturali. Il quadro delineato comincia a cambiare negli ultimi decenni del secolo scorso e più velocemente nei primi (2!) del nuovo millennio (salvo le regole soprintendili, è ovvio). Forse è un punto di vista, per così dire, materialista e, però, qualche fondamento lo ha, il motore della trasformazione è stata la comparsa nel comparto dei prodotti edili di una quantità vastissima di vernici sintetiche le quali hanno ampliato notevolmente le possibilità coloristiche. Le pitture viniliche in così grande varietà, peraltro combinabili fra loro e di intensità graduabile (rispetto al passato si possono ottenere colori assai più accesi, se non sgargianti come quelli impiegati di norma nei murales), hanno spinto ad un’apertura al colore, ad abbandonare la sobrietà tanto nell’oggettistica per la casa quanto nel trattamento esterno delle costruzioni. È vero che pure i palazzi di prima erano tinteggiati, ma quando l’allora sindaco Massa negli scorsi anni novanta emise le prime ordinanze per la riqualificazione dell’immagine esteriore degli immobili che affacciano sul corso Vittorio Emanuele, il principale del capoluogo della regione e, di conseguenza, della regione stessa, nessuno si aspettava quel rinnovamento cromatico si è determinato in questa strada che è un po’ la vetrina del Molise.

Il merito è delle nuove tinte a disposizione. I colori applicati ai fronti edificati non è che siano l’avvio di un percorso che oltre un decennio in avanti porterà ai murales, i quali adoperano tinte altrettanto nette, ma è, comunque, un passo nell’evoluzione del gusto coloristico; a supporto di tale affermazione, si fa notare la distanza, non fisica poiché via Roma è alle spalle del corso, bensì di sensibilità coloristica che vi è tra le colorazioni del secondo e quella della sede della Provincia di meno di un decennio, adesso, indietro con il suo celestino che è il “color dell’aria” della tradizione architettonica romana, qualcosa che ricorda la tecnica storica della scialbatura qui appropriata essendo un monumento. Il percorso di cui si è detto prevede tappe intermedie tra cui vi sono le riproduzioni sui muri di opere d’arte classica ad opera del prof. Iannelli. Per due aspetti, oltre al soggetto, differiscono dai murales veri e propri, l’uno è che sono di piccole dimensioni, l’altro è che sono protette mediante un vetro, sia dai vandalismi sia dal deperimento dovuto allo smog (sono posizionate ad altezza d’uomo lungo vie carrabili) e agli agenti atmosferici. Il progressivo degrado sembra inevitabile nei dipinti murali e, anzi, viene programmato come, ad esempio, nel caso del celebre ciclo sulla storia di Roma raffigurato su un muraglione del lungotevere nei pressi di Castel S. Angelo. Se non un’obsolescenza materica ve n’è sicuramente una contenutistica: il Trump che discute con gli altri leader mondiali in un murales del quartiere S. Giovanni de’ Gelsi non è più il presidente degli Stati Uniti. Un ulteriore passaggio verso i murales è rappresentato dall’abbellimento delle saracinesche, quasi moderne tele d’artista, tante ne sono state a essere oggetto di maquillage, con disegni estremamente colorati. Nel nostro discorso esse sono lo spunto per parlare delle bombolette spray, lo strumento principe degli street artist il quale ha il limite delle campiture continue, non permettendo lo sfumato che, invece, l’affresco, quello di Iannelli, consente. Le serrande, per fortuna, nel centro cittadino sono poche (non solo in via Ferrari dove sono concentrati i negozi con vetrinette sporgenti sul percorso viario, in parte risvoltanti ai lati dell’ingresso, fuoriuscenti dalla parete dello stabile, che fa tanto retrò), perché vengono frequentemente sostituite con grigliati metallici i cui occhielli impediscono la visione della merce in vendita. Beninteso è tutto legale, mentre non lo sono i graffiti i quali sono delle scritte, non dei disegni, che imbrattano i muri qua e là nelle città e financo il patrimonio monumentale, successe alla chiesa di S. Giorgio. Per realizzare dei murales occorre che ci siano edificazioni “in linea”, tipologia presente esclusivamente nelle Zone di edilizia economica e popolare poiché si concludono con una parete cieca e perciò lì si trovano a S. Giovanni dè Gelsi e a Fontanavecchia; servono pure a migliorare l’immagine di alcuni luoghi in cui sono presenti importanti muri di sostegno, il tragitto che conduce al Terminal, attraverso il sottopasso ferroviario o sottopassando il ponte della ferrovia, e la stessa stazione degli autobus, una specie di continuum. Nella parte centrale si è intervenuti, non senza polemiche, sul Mercato Coperto con un intervento di optical art perché il drago rappresentato ha gli occhi coincidenti con le finestre. Una eventualità concreta è che sfruttando l’ecobonus si effettui il “cappotto” sui fabbricati del Quartiere CEP i quali non vennero intonacati o per minimizzare i costi o per le esigenze estetiche dell’architettura neorealista che vogliono che il mattone e la struttura portante in c. a. siano visibili, o per entrambe le cose facendo di necessità virtù; una volta rivestiti di intonaco, essendo il tipo edilizio in linea, essi, i loro lati corti, in particolare le testate prospicienti la viabilità principale, sono pronti per fare da supporto ad operazioni di street art.

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4 - Il Borgo Murattiano

L’atto fondativo di una città, di certo, era prerogativa di un Re, mentre sembra eccessivo che anche per l’ampliamento di un abitato si dovesse scomodare il capo di un regno. Eppure è così, tanto che per realizzare il Nuovo Borgo di Campobasso fu necessaria l’autorizzazione regia che venne concessa da Gioacchino Murat nel 1812. Il sovrano non decise solo sull’opportunità di estendere l’insediamento urbano, cosa del resto scontata perché nel 1806 Campobasso era diventata il capoluogo della provincia, ma pure sul piano urbanistico da adottarsi. Essendo un ufficiale di Napoleone il quale lo aveva posto sul trono del regno di Napoli, egli optò per il progetto di Berardino Musenga invece che per quello del suo concorrente, l’olandese Wan Rescant, perché più aderente alla temperie illuministica che informava la cultura dell’epoca.

Promosso dai pensatori e dai riformatori francesi si era andato affermando un modo di sentire dominato dalla “ragione” e la razionalità, di conseguenza, è la guida delle attività umane tra le quali vi è pure quella della progettazione degli insediamenti; il disegno antagonista, quello di Wan Rescant, segue, invece, ancora i dettami dell’architettura barocca e, perciò, viene scartato. Ciò che non era oggetto di competizione era la scelta del sito, la quale era obbligata essendo disponibile, a seguito dell’abolizione, nei medesimi anni, della transumanza, il suolo del tratturo che passava ai margini del sobborgo sorto fuori le mura medioevali. Oltre alla disponibilità della superficie, la quale era ampia in quanto qui la pista tratturale si allargava per ospitare le fiere che si svolgevano in occasione del passaggio delle greggi, per edificare un quartiere (tale è, infatti, il Borgo Murattiano e non un’entità urbana a sé stante) era opportuno che il luogo fosse piano per minimizzare i costi di urbanizzazione i quali, inevitabilmente, si incrementano se per costruire occorre prima modellare il terreno. Un semplice inciso: anche uno slargo per lo svolgimento del mercato deve essere pianeggiante. Non sarebbe stato possibile trovare un altro spazio nelle vicinanze del nostro centro con simili caratteristiche morfologiche (salvo smentirci in seguito!) essendo il territorio di questa parte della regione di tipo collinare; le uniche pianure sono quelle delle fondovalli dei maggiori fiumi. Non guasta il fatto che l’appezzamento di terra prescelto fosse privo di vegetazione arborea come si conviene ad un tracciato tratturale il quale è destinato, insieme alla percorrenza, al pascolamento. Favorisce, poi, un’organizzazione regolare dell’aggregato edilizio la circostanza che l’area individuata abbia forma pressoché rettangolare. Conta, inoltre, il fatto che tale piano non sia attraversato da un corso d’acqua e neanche lambito, sia perché il corpo idrico qualora fosse al suo interno costituirebbe un elemento che ne interrompe la continuità sia per il pericolo di allagamento, e ciò avviene non di rado in una pianura che solitamente è di origine fluviale; il nostro caso è a parte in quanto qui la piana è più propriamente un altopiano con i suoi 700 metri di quota. L’essere pianeggiante di tale zona è un vantaggio anche per un altro aspetto che è quello che la rete viaria che si andrà ad immaginare potrà essere costituita da aste lineari le quali vanno a favore di una ordinata disposizione delle case da realizzarsi. Per quanto riguarda la viabilità si ritiene utile una sottolineatura che è la seguente: si ammette, pur a costo di smentire quanto precedentemente affermato, che vi sarebbe stata una diversa zona dotata di suolo piano ed è Fontanavecchia che, però, pur non essendo troppo distante dal nucleo storico è separata da esso dal Monte S. Antonio, ma soprattutto è lontana dalla principale direttrice stradale, verso la capitale dello Stato, lungo la quale si posiziona, al contrario, il Nuovo Borgo. Non dovrebbe essere così per un intervento pianificato qual è quest’ultimo, bensì un fenomeno limitato agli episodi edilizi (si rimarca la parola episodi) di iniziativa individuale i quali tendono ad attestarsi su una strada esistente, l’infrastrutturazione di cui si ha bisogno per costruire. Non per motivi pratici del tipo di quello che abbiamo visto si è spinti ad insediarsi lungo le più significative arterie di comunicazione innanzitutto per i flussi di persone, merci, informazioni che vi transitano e ciò non è stato, probabilmente, secondario nella individuazione del posto dove sviluppare Campobasso.

Fontanavecchia, peraltro, non va bene per il suo orientamento topografico, a nord-ovest, con la Colina Monforte che riduce il numero di ore di soleggiamento; il Piano delle Campere, si svela la denominazione della località che si è preferita, si presenta del tutto salubre con la luce solare tutto il giorno (va da ovest ad est) e la salubrità è un obiettivo che è stato tenuto ben presente dal Musenga nel disegnare questa specie di grande lottizzazione. I lotti sono comprensivi di giardino e se il privato è assicurato di una superficie a verde la quale tiene basso l’“indice” di fabbricabilità, il pubblico non è da meno in quanto a densità urbanistica per via dei due grandi “vuoti” situati nel centro l’uno destinato a piazza l’altro a parco. Non si era mai visto fino ad allora in nessuna realtà insediativa molisana spazi comuni tanto ampi (forse, solo, piazza G. Pepe nella stessa Campobasso può reggere il confronto). È questa delle superfici non “coperte” l’eredità più consistente che ha lasciato la pianificazione ottocentesca voluta da Murat alla città attuale o, quantomeno, alla sua parte centrale la quale, comunque, è il cuore della struttura urbana. Un’immediata constatazione è che la maglia dei percorsi i quali hanno una sezione consistente risulta idonea tuttora, in piena età dell’automobile (va segnalato che, opportunamente, si è reso non carrabile, bensì solo pedonale, il Corso); anche quello del traffico, in quel tempo delle carrozze, deve essere stato un problema che Musenga intendeva risolvere. Le erte pendenze dell’agglomerato antico superabili unicamente mediante gradinate contrapposte alla piattezza del Borgo Murattiano sono l’evidenziazione maggiormente efficace dal punto di vista percettivo dei cambiamenti messi in moto dal Murat due secoli fa. Guardando l’aspetto architettonico si nota una densificazione dell’area che non è stata riempita, come inizialmente stabilito, dai fabbricati unifamiliari al posto dei quali si sono eretti immobili plurifamiliari, con l’eccezione del palazzo destinato a sede del Tribunale Amministrativo; vi è stata una qualche rifusione dei lotti e, innanzitutto, una crescita in altezza dei volumi. Nonostante ciò l’impianto planimetrico progettato dal Musenga ha tenuto e nonostante il mutamento del significato della piazza per via del subentro del Municipio al Monastero della Libera con tutto ciò che, inevitabilmente, si porta dietro.

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5 - Il Castello Monforte

Ciò che colpisce nella vista del castello Monforte, perché inusuale, sono le torri basse, tutte. Sono quattro, una per ogni angolo di questo maniero che ha una forma tendenzialmente quadrata e non è possibile che siano corte perché la loro parte superiore è, per qualche causa, crollata: è poco credibile che ognuna di esse sia stata colpita da uno stesso accidente, naturale o artificiale, capace di determinarne il crollo parziale. Oltre che la comparazione con le altre rocche dove le torri sono di altezza, sempre, pari o superiore a quella della cortina muraria cui sono adiacenti (svettano sulle mura a Carpinone e Torella) è la presenza del redontone in sommità a denunciare l’incompletezza dell’elemento turrito. Il redontone è quel cordolo in pietra con profilo bombato (una specie di toro, il cuscino lapideo che si metteva alla base delle colonne) che suddivide in due parti, in senso verticale, sia le torri sia le pareti di una struttura castellana a partire dalla II metà del XV secolo; esso distingue una zona inferiore che è sagomata in maniera obliqua e una soprastante che è, invece, dritta.

A suffragare la tesi che non sia stato un evento involuto, bensì frutto della volontà umana, ciò che ha prodotto la ridotta elevazione delle torri è il fatto che in quel periodo si è proceduto a “cimare” le torri in tante opere fortificate, operazione che in gergo tecnico si chiamava scamozzare, dal nome dell’architetto Scamozzi il quale per primo operò simili tagli. Ebbene, nonostante le argomentazioni esposte tendenti a dimostrare che le torri qui furono oggetto di abbassamento, si è dell’opinione che a Campobasso le torri non furono decurtate, ma che esse nacquero così. L’indizio forte che spinge a tale ipotesi è, per via degli spigoli del castello ai quali si agganciano le torri che sono, come del resto le facciate da ogni lato, a scarpa, la seguente: se le torri proseguissero verso l’alto esse si troverebbero staccate dal muro del volume principale del castello che, nel frattempo, essendo inclinato, arretra. Comunque, per quello che ora si vuole dire non cambia molto, tanto se il corpo turrito è stato accorciato quanto se è stato pensato esattamente nel modo in cui lo vediamo oggi. In questo secondo caso, va precisato, il redontone occorre leggerlo alla stregua di una modanatura architettonica non come una componente funzionale di raccordo tra il basamento a scarpata e quanto si sviluppa sopra verticalmente, il prosieguo della torre. Il tema della taglia delle torri, o meglio sul loro taglio la cui conseguenza è il redontone trasformato in, pressappoco, un cornicione e non più linea di demarcazione, la sua mission classica, non è una questione da poco, non riguarda, infatti, un dettaglio costruttivo poiché coinvolge l’impostazione stessa dell’apparato difensivo all’indomani dell’introduzione delle armi da fuoco. Le torri dovevano essere più spesse per resistere ai colpi di cannone, di qui la scarpa che le ingrossa, e più corte per permettere di posizionarvi le bombarde le quali erano chiamate a colpire gli avversari “d’infilata”; alla difesa piombante, quella dello scagliare sulla testa degli assalitori che tentano la scalata alla cinta muraria oggetti pesanti, se non olio bollente, si sostituì con l’avvento della polvere da sparo la difesa cosiddetta radente.

Quest’ultima, anche temporalmente, tecnica di guerra consentiva di uccidere un maggior numero di nemici rispetto a quella precedente in quanto una palla di artiglieria sparata orizzontalmente riusciva a falcidiare una schiera di soldati e non più uno solo alla volta. Poiché la gittata dei cannoni è a lunga distanza il castello diviene da macchina da difesa a macchina d’offesa. Si riducono gli scontri corpo a corpo nei quali i condottieri mettevano alla prova, secondo gli ideali cavallereschi, il proprio valore e da ciò ne consegue anche una loro perdita di status; perdita che dovettero amaramente accettare pure personaggi alla ricerca di gloria, tipo l’ambizioso conte Cola. Da strateghi di battaglie campali nelle quali ponevano in luce le virtù guerresche, mostravano il loro coraggio nel combattimento, esibivano carisma nel condurre all’attacco le truppe, evolvettero in figure assimilabili agli ingegneri militari. Tale fu il destino di Nicola di Monforte al quale si deve l’adozione delle misure di adattamento del castello di Campobasso alla nuova arte della guerra. Tra queste vi è il ringrosso della zona basamentale dei fronti edificati con l’aggiunta di paramenti lapidei sistemati in diagonale per renderli più resistenti alle cannonate; ciò in ragione del fatto che il loro cedimento, cioè del piede, avrebbe causato la caduta dell’insieme della muratura. L’intercapedine fra la fodera esterna in conci calcarei e il muro preesistente è riempita di terra costipata e durante un intervento di restauro effettuato un paio di decenni fa sono state rinvenute in tale interspazio colmato da terreno radici di piante allignate all’interno. Per rendere efficace l’azione delle bombarde fu decisa l’eliminazione delle case in prossimità del maniero. La demolizione delle abitazioni per un ampio raggio consentiva di avere sgombra la vista per il tiro delle artiglierie e di controllare i movimenti degli avversari. Accanto alla creazione di questa sorta di spianata il Monforte, quasi a non saper decidersi edificò un doppio circuito murario, uno minore intorno al castello e l’altro che abbracciava l’estensione totale del borgo, una soluzione avente un sapore di ridondanza.

6 - Il borgo antico

Non è detto che le mura di Campobasso siano da attribuirsi a Cola di Monforte, possono essere state opera della stessa cittadinanza. È credibile che la cinta muraria sia stata fatta per volontà propria della civitas, magari in collaborazione, tutt’al più, con il feudatario. È plausibile anche la tesi che la comunità abbia voluto dotarsi di una fortificazione per difendersi, oltre che da nemici esterni, dallo stesso signore. La presenza sia della porta vicino l’abside della chiesa di S. Bartolomeo che separava l’insediamento abitativo dall’area di pertinenza del castello, sia della torre prossima denominata Terzana la quale è “scudata” con la rotondità rivolta verso l’abitato munita di foro per l’alloggiamento della bocca del cannone, è un indizio che avvalora l’ipotesi formulata. Dunque la popolazione campobassana ha un duplice sistema difensivo, uno nel margine inferiore della città per proteggersi durante i conflitti con potenze forestiere e una nel segmento del perimetro urbanizzato superiore negli scontri, ovvero sommosse popolari, contro la guarnigione agli ordini del titolare del feudo.

La città ha una pianta conica, la linea che segue il confine sopra è corta, sotto è lunga. Il disegno dello sviluppo planimetrico si presta per uno schema a raggiera della viabilità con le arterie stradali, i raggi, che convergono verso l’alto, distanziandosi fra loro andando verso il basso. Tale morfologia della planimetria che richiama la sezione longitudinale di un cono fa pensare e non si sbaglia a farlo ad un inviluppo della superficie cittadina che ha quale punto focale il castello. Quest’ultimo funge da attrattore delle percorrenze del borgo per le sue funzioni di centro direzionale. In qualche modo, si obietterà, si sta contraddicendo quanto detto al principio circa l’autonomia del nucleo urbano della rocca ed è vero, ma è vero fino ad un certo punto e quel punto è, in effetti, una riga o, meglio, striscia di territorio, quella occupata da un asse viario più tardo che congiunge porta S. Paolo a porta S. Antonio Abate. A questa altezza, in verità si dovrebbe dire bassezza perché siamo nella fascia più bassa dell’agglomerato murato, si verifica una autentica rivoluzione nell’andamento delle strade le quali sono le vie Ziccardi e S. Antonio Abate, che corrono lungo la isoipsa ma ci ricomprendiamo anche via Cannavina pur se essa ha l’ambiguità di essere la prosecuzione di via Chiarizia la quale cammina ortogonalmente alle curve di livello. Il polo cui si indirizzano non è ormai, siamo alla fine del medioevo, il maniero posto in cima al colle bensì la piazza posta nel piano. Essa significativamente è omonima della chiesa arcipretale che vi insiste; significativamente in quanto nel medesimo slargo affaccia il fronte laterale della nuova residenza del feudatario che aveva nel frattempo traslocato dal castello essendo venuta meno la necessità di fortificarsi, siamo nel periodo vicereale. Però la dimora nobiliare pur piegandosi a L per dar spazio alla piazza non colloca il suo ingresso su tale slargo altrimenti forse quest’ultimo si sarebbe chiamato Largo del Palazzo. È da dire che è l’unica piazza presente nel centro storico la quale per la sua sufficiente ampiezza riesce a contenere le assemblee civiche. Senza tale piazza Campobasso sarebbe rimasta acefala, la testa le era stata tagliata avendo perso la struttura castellana qualsiasi ruolo; testa nel senso di organo decisionale come nel corpo umano e come in esso situata alla quota più elevata dell’organismo, adesso, insediativo. Il collo è rappresentato dal lungo declivio disabitato che distanzia la rocca dall’inizio, partendo da su, dell’aggregato residenziale. In definitiva, l’assetto urbano sarebbe incompleto senza un luogo o edificio che sia per lo svolgimento di attività di interesse collettivo, ieri come oggi, lo prevede la vigente normativa urbanistica; per di più piazza S. Leonardo è nel baricentro dell’ambito abitativo. La polarità è in continua migrazione, dal castello sede del potere militare alla piazza S. Leonardo in cui si assommano il potere religioso e quello governativo e da qui alla piazza del mercato, attuale piazza Prefettura, che è il sito del potere economico che è extramoenia. Al di là delle mura stanno pure, ai due lati brevi contrapposti, le chiese di S. Antonio Abate e di S. Paolo intorno alle quali si erano andate raggruppando abitazioni, dei minuscoli quartieri e, perciò, anche esse dei fulcri sia pure minimali i quali hanno l’effetto di mitigare la tendenza alla polarizzazione centrata sulla piazza S. Leonardo.

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È da notare che ambedue queste chiese fuori porta sono collocate fuori 2 porte cittadine le quali prendono nome da esse. Pure la piazza mercantile è subito al di fuori di una porta, immediatamente adiacente com’è alla Porta Maggiore. Tutto ciò lascia dedurre che le entrate svolgano un ruolo primario nell’organizzazione urbana, posti di addensazione di case e di locali commerciali e artigianali, per certi versi costituiscono dei micropoli decentrarti. Finora si è condotta la lettura dell’impianto urbanistico assumendo quale determinante della forma urbis l’ubicazione delle funzioni direttive, gli elementi primari sono, in precedenza, il castello e, in seguito, la piazza comunale, proponiamo ora una differente interpretazione della configurazione della città. La figura del ventaglio che richiama la pianta induce a presupporre una crescita a macchia d’olio, con il liquido oleoso, per rimanere nella metafora, il quale, è l’edificazione che si espande progressivamente dal vertice del monte S. Antonio in cui c’era il nucleo originario sul versante allargandosi proprio come fa una macchia, man mano che si scende giù. Tale processo di sviluppo, peraltro tipico in età contemporanea, del’agglomerazione deve essere stato arrestato, figurativamente, dalla cortina muraria fin quando ha potuto, fino all’abbattimento della Porta Maggiore, dopo di che si è avuto il dilagare della predetta sostanza olearia che è metaforicamente l’edificato nella zona dove sorgerà il sobborgo extramurario. Il piano di Musenga per il Nuovo Borgo sembra mirare ad impedire una diffusione incontrollata priva di qualsiasi regola formale, degli edifici e riprodurre qui la congestione edilizia che si è avuta nel borgo antico dovuta ai fabbricati che si affastellano l’uno sull’altro riempiendo ogni vuoto salvo quello coincidente con piazza S. Leonardo senza verde pubblico. 

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7 - Il futuro della città
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Il destino di Campobasso va cercato nel suo rapporto con il territorio circostante. È, del resto, quanto connota la storia di questa città che deve il suo sviluppo proprio alla collocazione geografica, prima per essere al centro della rete tratturale, nel punto intermedio della transumanza che si svolgeva tra le montagne abruzzesi e le pianure pugliesi, e dopo per il trovarsi nel baricentro del Molise, una volta istituita la provincia. Oggi il capoluogo regionale viene considerato posto, ancora nel luogo mediano, lungo la principale direttrice di sviluppo della regione, quella che da Venafro porta ad Isernia e, poi, passando per Boiano, a Campobasso per concludersi a Termoli; in tale asse è insediata una larga parte della popolazione molisana e sono collocate le principali attività produttive. Si tratta di quella che un tempo si definiva un’«area forte» che si contrapponeva alle «aree deboli», in seguito qui da noi denominate «aree interne». Per zone simili nelle politiche europee della nuova programmazione comunitaria l’obiettivo da perseguire è quello della «competitività», cioè della sfida in termini economici con altri territori, mentre negli ambiti in ritardo di sviluppo bisogna puntare alla «convergenza», ovvero alla «coesione», al mantenimento, in altri termini, della situazione attuale frenando ulteriore esodo di popolazione e di posti di lavoro.

Con la realizzazione dell’autostrada, il cui tracciato rientra in questa fascia più avanzata, il divario tra le zone ricche e le zone povere rischia di accentuarsi, a meno che non si è capaci di determinare effetti diffusivi. Campobasso può avere proprio questo compito, potendo offrire servizi avanzati tanto alle imprese industriali quanto alle iniziative imprenditoriali nel campo dell’agricoltura tipica, dell’artigianato tradizionale e del turismo culturale. In effetti, ciò, da un lato, sembra essere una scelta obbligata per la nostra città e, dall’altro, la sua prospettiva naturale trattandosi di un centro urbano situato in altura dove non vi sono condizioni localizzative soddisfacenti per le industrie, ma che, come in genere le zone collinari, presenta una elevata qualità paesaggistica e un notevole patrimonio storico (il castello Monforte, le chiese romaniche, ecc.). Ponendo la questione in termini diversi si può dire che quello che potrebbe apparire uno svantaggio, la morfologia dei luoghi e l’attuale condizione di isolamento costituisce, in realtà, una opportunità permettendo di immaginare uno sviluppo legato alla valorizzazione delle risorse ambientali. Queste ultime sono il presupposto non solo per incrementare i flussi turistici, ma pure per garantire una migliore qualità della vita al fine, anche, di attrarre quelle persone di un certo livello culturale, per lo più giovani, interessate ad un contesto abitativo stimolante. Imprenditori, artisti, ricercatori, professionisti nel settore della conoscenza sono alla ricerca di un ambiente urbano vivo, denso di opportunità ricreative e culturali: in questa direzione vanno il rilancio del teatro Savoia, la ristrutturazione del complesso fieristico di Selva Piana che ora ospita la Cittadella della Scienza e dell’Economia, l’ampliamento della Biblioteca Provinciale la cui progettazione viene finanziata dal Ministero per i Beni Culturali con i fondi del programma Sensi Contemporanei, il restauro dell’ex caserma dei pompieri a via Mons. Bologna per adattarla a Incubatore d’Impresa.

Se si vuole incentivare la presenza di forza lavoro giovane qualificata in città occorre assicurare occasioni di formazione di alto livello e queste non mancano, dall’Università al Conservatorio musicale, una larga gamma di servizi avanzati e la disponibilità di alloggi di taglia adeguata. Per quanto riguarda le abitazioni a Campobasso la proprietà della casa è una tendenza diffusa e il parco immobiliare disponibile per l’affitto è scarso; si registra il fenomeno della redistribuzione della domanda residenziale in un ambito intercomunale che comprende Vinchiaturo, Ripalimosani, Campodipietra, ecc. essendo satura l’offerta di appartamenti nel capoluogo nonostante ci siano molti alloggi non occupati nel centro storico che, invece, potrebbero essere utilizzati da coppie di nuova formazione e di giovani. Quando si pensa all’edilizia nel nostro centro la si considera esclusivamente come un comparto produttivo capace di trainare l’economia cittadina e non come un settore funzionale al rafforzamento dell’armatura urbana. Le grandi operazioni immobiliari attualmente in corso, a cominciare dalla “città nella città” di corso Bucci, quale effetto positivo hanno quello del rilancio economico, ma hanno poco a che vedere con strategie urbanistiche di qualsiasi tipo. Se ci sono conseguenze di queste iniziative sul contesto cittadino esse sono quelle di modifica del panorama urbano, a volte davvero consistente come si può constatare nel rione Vazzieri dopo l’edificazione del complesso per abitazioni e uffici della ditta Petrecca. Le alterazioni consistenti alla forma urbana provocano degrado paesaggistico e, di conseguenza, peggioramento delle condizioni di vita come ci ricorda la Convenzione Europea del Paesaggio. Quello dell’ambiente è un tema centrale nelle strategie di marketing territoriale in quanto l’integrità ambientale di un luogo può invogliare a permanervi. La salvaguardia del sistema ecologico riguarda innanzitutto la città in quanto sono proprio le aree urbane la principale causa di inquinamento (nel Molise, una regione con un basso grado di urbanizzazione, Campobasso costituisce una delle maggiori minacce all’ambiente). Essendo il nostro un centro di piccole dimensioni esso partecipa strettamente con il contesto territoriale; per rendersi conto di ciò basta riflettere sul fatto che da qualsiasi punto di questo abitato si percepisce l’agro rurale che sta all’intorno. Il paesaggio della campagna campobassana si va trasformando per via della diffusione insediativa e delle infrastrutture viarie che ora l’attraversano. Un pericolo per l’immagine paesaggistica è anche quello dell’instabilità geologica, un male che affligge tanta parte della regione, con vari episodi calamitosi dei quali l’ultimo si è verificato nel mese di marzo nella contrada Colle Leone.

Se passiamo alla natura abbiamo che la città viene a rappresentare una barriera che disarticola la rete ecologica, spezzando la continuità dei corridoi naturalistici: Campobasso viene a trovarsi tra due Siti di Importanza Comunitaria, Monte Vairano e il corso del Biferno. Mentre per il primo con la creazione del parco sono state previste attrezzature per la fruizione dell’ambiente, per il secondo non si fa nulla essendo rimasto inattuato il progetto di parco fluviale predisposto dalla Comunità Montana. Nel momento che viviamo di crisi dell’urbanistica almeno per la parte di competenza pubblica è indispensabile uno strumento regolatore e in questa parte si ricomprendono le azioni per l’ambiente, a cominciare da quelle per il verde urbano e con la questione, mai risolta, del traffico. Occorre spingere per la realizzazione della metropolitana leggera che è stata pensata quale ristrutturazione della linea ferroviaria esistente piuttosto che come opera ex novo (a differenza, perciò, di quella, ad esempio, di Perugia, la prima del genere), utilizzando infatti le rotaie della ferrovia per Termoli, fino a Matrice, e per Isernia, fino a Boiano. Essa poiché garantisce un servizio ai pendolari, procura benefici ai non residenti in città e, nello stesso tempo, migliora la qualità urbana, riducendo i flussi automobilistici in entrata e in uscita, con vantaggi di tipo ecologico per coloro che abitano in Campobasso. Per i tipi di mobilità diversi da quella su ferro, abbiamo che è stato quasi completato il circuito ciclabile in direzione di Ferrazzano, mentre a proposito di mobilità pedonale e di intermodalità, ancora non è stato attuato il progetto della passerella che dovrebbe collegare il centro con il terminal degli autobus. Per quanto riguarda il trasporto automobilistico si rileva che l’anello viario tangenziale costituisce una eterna incompiuta in quanto, pur procedendo i lavori della tangenziale nord non vi è alcuna previsione di spesa per il collegamento tra quest’ultima e la tangenziale est. Quella del sistema stradale anulare è un’idea che risale al periodo in cui si pensava che i problemi urbanistici potessero essere risolti con le grandi infrastrutture; nel caso delle tangenziali della nostra città più che a velocizzare gli spostamenti tra una parte e l’altra dell’agglomerato edilizio sembrano essere a servizio della dispersione abitativa nell’agro rurale, uno dei preoccupanti fenomeni legati alla crescita demografica del capoluogo regionale. Andando verso i luoghi centrali dell’insediamento il traffico si intensifica registrandosi un conflitto strutturale tra la presenza delle auto e le dimensioni delle strade le quali non riescono a contenerle con la situazione limite rappresentata dalla zona medievale inevitabilmente pedonalizzata. Un altro tema molto attuale è quello della saturazione dei cosiddetti «vuoti» urbani. Si è cominciato da via Gazzani e da corso Bucci con il riempimento di aree dismesse con complessi immobiliari privati e ora si vuole continuare nel sito dell’ex Romagnoli dove è prevista la sede della Regione; per quanto riguarda l’ultimo caso, quello di una nuova destinazione al terreno occupato dallo stadio comunale ormai declassato a campetto di periferia, esso richiama il problema della rifunzionalizzazione delle attrezzature obsolete presenti nel cuore della città che occupano spazi strategici per qualsiasi ipotesi di sviluppo del nostro insediamento urbano. Si tratta del carcere, del distretto militare, del mercato coperto (almeno per come è ridotto oggi!), ma anche dell’ampia fascia non più utilizzata per ricovero e officina della stazione ferroviaria e, spostandoci nella «prima» periferia, del canile ospitato nel vecchio macello. I rischi che si corrono sono di duplice tipo: da un lato che ingrandendosi man mano il centro con l’estensione di quest’ultimo attraverso l’ubicazione di attività importanti, si pensi agli uffici regionali, in ambiti un tempo periferici si snaturi l’immagine tradizionale di questa tranquilla cittadina di provincia, che è poi il suo fascino, e, dall’altro lato che con l’ampliamento del centro e il suo rafforzamento conseguente si viene a determinare una maggiore distanza tra la parte nevralgica della città e la sua periferia. Qui, e questa è un’ulteriore tematica nel confronto elettorale, vi è una progressiva diffusione di abitazioni per le quali non si può parlare di certo di deurbanizzazione, ovvero di avvicinamento delle persone alla campagna, in quanto gli stili di vita rimangono sicuramente urbani. Vi sono larghi comprensori, Mascione, Cese, contrada Macchie e così via, in cui non è possibile individuare nessuna regola urbanistica nella crescita edilizia. È mancata qualsiasi azione di controllo dello sprawl urbano: l’unico tentativo di varare un piano di recupero delle zone rurali, quello predisposto dall’arch. Lucarino, è naufragato fra tante polemiche. Sarebbe necessario almeno una politica di adeguamento infrastrutturale data la grande quantità di case costruite in aree attualmente prive di servizi. La faccenda dello sfruttamento ai fini edificatori degli ambiti interstiziali nel centro e quella della disseminazione delle costruzioni in campagna sono in qualche modo connesse poiché rimandano all’eterno dilemma se la città debba essere più o meno compatta che mette in gioco anche la problematica, sempre più in primo piano, del consumo di suolo. Il territorio extraurbano non è fatto, comunque, solo da villette in quanto vi sono pure frazioni come S. Stefano e Camposarcone, connesse con la produzione agricola e numerosi manufatti tipici, riconducibili spesso (le taverne di Tappino e del Cortile, innanzitutto) al passaggio del tratturo Castel di Sangro - Lucera per il quale si parla, a scala regionale, di un parco lineare: partendo da ciò si potrebbe pensare, ed è un ennesimo punto dell’agenda politica, ad una valorizzazione turistica di tali zone, magari collegate mediante appositi itinerari con il centro storico e il parco di Monte Vairano.

Nell’agro rurale non c’è solo questo perché vi sono pure i centri commerciali, i quali ad ogni modo non sono così lontani dall’agglomerato abitativo come succede a Montenero di Bisaccia e a Termoli, la Cattolica, la Cittadella dell’Economia, localizzazioni che dimostrano che i luoghi della centralità sono diventati mobili, innescando un processo di rigerarchizzazione dello spazio. Non è un fenomeno quello appena citato tanto nuovo per Campobasso che ha vissuto diverse fasi di crescita (e pure di declino), con un tessuto urbanistico in relazione a ciò estremamente differenziato. Le sue parti migliori sono quelle che sono state pianificate, dal borgo murattiano con la sua maglia viaria così regolare al quartiere CEP a tutte quelle zone nate negli anni ’70 con piani di lottizzazione (Vazzieri, Colle dell’Orso, ecc.): è evidente che il focus del dibattito sulla città non può che essere il piano regolatore, il cui varo lo si attende da decenni. La situazione è in costante evoluzione per cui è già superato il progetto di piano predisposto dal prof. Bequinot né può considerarsi ancora valido l’impianto urbanistico della variante generale risalente al ’69 come confermano le numerose riclassificazioni avutesi negli ultimi anni di aree soggette ai vincoli di PRG. Una serie di accordi con enti pubblici, primo fra tutti quello con la Regione per il suo palazzo, portano a trasformazioni delle previsioni urbanistiche originarie; sempre nell’ottica dell’urbanistica contrattata sono state stipulate anche convenzioni con privati in variazione delle disposizioni dello strumento di pianificazione (vedasi i Contratti di Quartiere e i Programmi di Riqualificazione urbana). Il piano da farsi dovrà essere obbligatoriamente di livello sovracomunale e non più come è successo in passato quando la città ha inglobato pezzi di territorio dei comuni contermini seguendo il sogno della “grande Campobasso” di epoca fascista, ma cercando alleanze con il suo hinterland per realizzare obiettivi comuni in campo ambientale, di sviluppo sostenibile, di miglioramento di qualità della vita.

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8 - Il perché della città

È necessario partire da Vincenzo Cuoco che lamentava il fatto che nel Molise non vi fosse una città vera e propria per parlare dell’effetto-città sulla crescita di un territorio. Senza una città non si può avere, secondo il pensatore civitacampomaranese, l’affermazione delle «arti di lusso», quindi lo sviluppo dei consumi che parte da quelli delle èlite che qui vivono le quali hanno maggiore capacità di spesa; sono le classi elevate quelle che dispongono di un surplus reddituale da reinvestirsi nell’acquisto di beni non di prima necessità capaci di muovere l’economia del posto con ricadute anche sulle aree periferiche. È questo solo uno dei benefici prodotti da una città, ma ve ne sono anche altri che vanno dai servizi di tipo direzionale al garantire, tramite apposite sedi di istruzione, la formazione dei ceti dirigenti.

Riconosciuta la necessità della città, riconosciuta da tutti, la domanda che noi molisani dovremmo porci è che cosa sarebbe successo se Campobasso non si fosse evoluta in città; la risposta è che ci saremmo rivolti per i bisogni avanzati che vengono soddisfatti da una città, altrove, cioè fuori dai confini della regione. Detto tutto ciò, incluse le considerazioni ipotetiche espresse, passiamo a vedere il processo che ha portato Campobasso a diventare un’autentica città, senza, però, tralasciare di aggiungere quanto segue: chi biasima che il nostro capoluogo, in età contemporanea, sia aumentato di popolazione a scapito dei piccoli paesi per una sorta di migrazione “interna” con il trasferimento di persone da questa al centro maggiore, contribuendo, insieme alla migrazione “esterna” (in direzione nord Italia e dell’estero), al loro svuotamento demografico trascura di riflettere sul fatto che senza il costituirsi di un polo cittadino nel Molise vi sarebbe stata la gravitazione verso località urbane extraregionali, in quanto di una città non si può proprio fare a meno. Campobasso ha l’obbligo morale per il sacrificio in termini di abitanti richiesto, è ovvio non esplicitamente, ai borghi minori di restituzione al “contado” di facilities nel campo educativo, predisponendo, ad esempio, agevolazioni logistiche per gli studenti fuori sede, sanitario, creando strutture di appoggio per i famigliari dei pazienti ricoverati nel nosocomio cittadino, tanto per dirne due, e di tale debito gli amministratori comunali non si devono dimenticare. Lasciato da parte il discorso sul rapporto tra città di riferimento e insediamenti di dimensioni ridotte così come si era fatto prima con quello relativo all’essenza della città, i quali insieme si possono considerare un enorme preambolo, strabordante, sovradimensionato nell’economia del testo, addirittura eccessivo, ma è così, possiamo finalmente vedere il percorso che ha seguito Campobasso nella sua trasformazione in città, il tratto conclusivo, gli ultimi 200 anni. Con l’investitura a Capoluogo di Provincia già nel Decennio Francese Campobasso diventa sede di uffici pubblici con le funzioni amministrative che si accrescono notevolmente sotto lo Stato unitario. Un ruolo primario nella vita cittadina lo hanno le scuole cui affluiscono, in particolare le superiori e in particolare dal Secondo Dopoguerra, ragazzi da un ampio raggio territoriale che con l’avvento dell’Università (in seguito decentrata anche ad Isernia e Termoli) viene a ricomprendere pure porzioni di Regioni confinanti. Le attività terziarie, tra cui il consistente comparto burocratico, e scolastiche attirano nuovi residenti alle residenze dei quali, congiuntamente alle opere di urbanizzazione, provvede una fiorente industria delle costruzioni; pure gli addetti di quest’ultima abbisognano di un alloggio e, quindi, come in una “catena di S. Antonio”, si espande il numero dei lavoratori nell’edilizia e, di conseguenza, dei cittadini campobassani. A cavallo dei due millenni comincino a comparire, aumentando l’attrattività del nostro centro, magari richiamando presenze saltuarie, non stabili, nell’immediata periferia urbana centri commerciali e luoghi di intrattenimento, prendi le discoteche e i locali ricreativi, come multisale cinematografiche. Certo, la spinta è stata esogena, la designazione al ruolo di governo della ripartizione provinciale, ma ci deve pur essere stato qualcosa di endogeno nell’affermazione di Campobasso quale città.

A prescindere che nella civiltà europea sono rari, salvo pochi esperimenti, i casi di città nate ex-novo, la “via italiana” alla formazione delle città moderne è stata quella dell’implementazione di mature entità urbanistiche preesistenti. La Campobasso capoluogo, prima di Provincia e ora di Regione era stata il feudo privilegiato del Conte Cola di Monforte ed ospitava la Doganella, organo dipendente dalla Dogana di Foggia, chiamata a controllare la transumanza e perciò godeva da quel periodo di un certo prestigio, possedeva un certo status, nonostante non fosse il centro egemone che in Molise mancava, si stava sviluppando nel piano, condizione morfologica favorevole per l’urbanistica dell’Illuminismo. C’era, inoltre, la centralità nel comprensorio provinciale, anche se l’ubicazione nel baricentro della provincia era sfavorevole per i collegamenti con le capitali del Regno, tanto delle Due Sicilie, Napoli, quanto d’Italia, Roma. In definitiva la posizione di Campobasso era felice per le comunicazioni con i paesi della provincia e infelice per quelli di scala nazionale. Comunque, con l’avvento delle ferrovie nella seconda metà del XIX secolo essa venne dotata di una stazione ferrovie perché l’arrivo dei treni era garantito ad ogni capoluogo provinciale e ciò ruppe l’isolamento. Adesso si vuole riprendere, legandolo alla questione della localizzazione del capoluogo molisano, il tema della imprescindibilità della città per il funzionamento di un sistema insediativo osservando che Campobasso in quanto città potrebbe candidarsi a colmare un vuoto, per così dire, urbano di realtà con armatura urbana che si coglie esserci in una vastissima area che va da Foggia a Pescara, Campobasso sta in mezzo, una porzione significativa della fascia mediana della Penisola, tra l’Italia centrale e meridionale, che affaccia sull’Adriatico, guardando oltre il Molise.

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9 - L'impianto urbanistico del centro storico

La tipologia urbanistica non è chiaro quale sia. Sono possibili più letture. Una è quella dello schema a raggiera con le strade che convergono verso il castello il quale è il vertice dei raggi; essa è valida per l’ambito urbanizzato posto sul pendio, non per la fascia pianeggiante. Un diverso modello a cui si può ricondurre la pianta è quello a ventaglio avendo un contorno triangolare con il lato più lungo semicircolare proprio come un ventaglio spiegato. Un ulteriore possibile modo di vedere l’impianto di Campobasso è quello che lo assimila al tipo definito ad avvolgimento sul quale ci soffermiamo un po’ di più. Si tratta di una specie di spirale, cerchi che man mano che si sale vanno restringendosi, la quale si diparte da porta S. Antonio, il punto più basso, la sua coda. Seguendo una traiettoria leggermente incurvata, l’anello più grande della spirale, si raggiunge porta S. Paolo. Qui si svolta e si prosegue lungo salita S. Paolo. All’incrocio con salita S. Maria Maggiore occorre torcere nella direzione opposta intraprendendo questa via. Dopo poco ruotare nuovamente puntando sulla chiesa di S. Bartolomeo. Appena superata piegarsi ancora mirando alla chiesa di S. Giorgio, l’altro capo della spirale il cui ultimo cerchio è diventato un cerchietto.

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Se queste sono le interpretazioni ricorrenti della forma urbis non sono, comunque, le uniche. Di seguito ne proponiamo altre due. La prima è il riconoscimento dell’esistenza di  2 assi viari di fondazione, 2 vettori di spostamento sui quali si è fondato l’insediamento. Un asse è formato dalla sequenza via S. Antonio Abate – via Ziccardi: esso si sviluppa in orizzontale e coincide con la sezione trasversale massima della città antica. L’altro asse non è un’arteria a sé stante come il precedente, bensì è composto da una teoria di percorrenze comprendente, nell’ordine, via Cannavina, via Chiarizia e salita   S. Bartolomeo; tale direttrice viaria avanza in verticale e corrisponde alla sezione longitudinale massima del borgo medioevale. Ambedue questi assi si interrompono, quasi fosse una pausa nell’incedere, in piazza S. Leonardo. Uno si distende da est a ovest e l’altro da nord a sud, grosso modo per cui i due nastri stradali sono praticamente ortogonali fra loro. Pertanto quando essi si incontrano vengono a disegnare una croce. Invece di considerare la piazza S. Leonardo semplicemente il rendez-vous dei percorsi anzidetti, un mero intervallo tra le strade, poco più di un incidente di percorso o, meglio, di percorsi, quello che va da sopra a sotto e quello che va da un lato all’opposto, in definitiva una cosa generata, la si potrebbe ritenere, è la seconda chiave interpretativa, un elemento autonomo che non  solo vive di vita propria, ma che è il polo cittadino che ha generato l’entità urbana, un ribaltamento dell’ipotesi interpretativa espressa in precedenza. Secondo la visione ora proposta la vecchia Campobasso ha un impianto urbanistico cruciforme riconoscendo alla piazza un ruolo primario nella definizione della struttura urbana, le strade sono ad essa subordinate. È come, per intenderci, che le strade si irradiassero da questo luogo il quale doveva aver costituito il nucleo originario dell’abitato, magari perché in detto spazio si svolgeva da tempo immemore il mercato. Sia come non sia, qualunque sia la matrice dell’organismo urbano, non conta se la primazia vada attribuita ai percorsi oppure al momento d’intersezione, le componenti del sistema urbanistico si presentano assai ben definiti. La piazza, per via del suo perimetro abbastanza regolare e della sua sufficiente ampiezza, è una vera e propria piazza, le strade, le quali sono della scala giusta in lunghezza e larghezza, sono strade al 100%. In entrambi i casi, strade e piazza, siamo di fronte a segni decisi e ben distinguibili nel panorama cittadino. Un avviso ai lettori: da adesso in poi ci si concentrerà sulle caratteristiche delle strade.

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Partiamo dall’asse via S. Antonio Abate – via Ziccardi: sebbene sia frutto dell’accostamento di due strade distinte esso non è una sommatoria di segmenti viari, bensì un insieme continuo con la mezzeria contraddistinta dal seguire un identico raggio di curvatura al di qua e al di la della piazza, piazza, la quale è a metà del suo svolgimento, che non interrompe il predetto asse perché ne viene inglobata. A questo asse che segue, pressappoco, l’isoipsa si contrappone quello ad esso perpendicolare in cui si innesta, o viceversa, nella piazza S. Leonardo il quale unisce le curve di livello minima e massima, pressappoco. Mentre il camminamento che procede da oriente a occidente si conclude una volta raggiunta una, alternativamente, delle due porte urbiche, quello che muove da meridione verso settentrione, o al contrario, ha la peculiarità di proseguire nel sobborgo fuori le mura garantendo una certa fusione della viabilità della vecchia e della nuova città. Questo asse tiene allacciati il su e il giù, il su è il castello che è, poi, il passato, mentre il giù è l’espansione oltre la murazione che è il futuro. Via Cannavina si chiamava via Borgo, via che conduce al borgo, per antonomasia la residenza della borghesia; essa, che è la strada principale dell’agglomerato storico si associa in maniera diretta, diritta, con la piazza principale, S. Leonardo per cui siamo nel cuore della Campobasso di un tempo la quale era separata dall’agglomerazione ultramuraria per mezzo della porta Maggiore che la sera veniva chiusa. All’inizio questa chiusura era sentita come esclusione dalla vita cittadina da parte di chi abitava all’estradosso delle mura, in seguito come segregazione dei residenti nel borgo intramurario, all’intradosso delle mura, con un ribaltamento del significato. Il centro storico è ormai periferia, un concetto quello di periferia che nel tessuto urbanistico antico non aveva alcun senso, vivendo i ceti sociali spalla a spalla e che tante persone che qui risiedevano hanno imparato a conoscere allorché si sono trasferiti nei quartieri di edilizia economica e popolare per cui il CEP è la controfaccia del borgo medioevale.

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10 - La collina Monforte

La Collina Monforte è un concentrato di duplicità a cominciare da quella di un versante costruito, il lato occupato dai fabbricati del centro storico, e uno non utilizzato se non per realizzarvi cave da cui estrarre pietre necessarie per edificare le case nel fronte opposto del colle. Ciò che si è descritto appare come una differenziazione semplicemente funzionale, ma vi sono altri tipi di doppiezza che hanno significati più profondi. Uno di questi è relativo al valore ambientale perché su una faccia esso è legato all’interesse culturale (l’agglomerato antico con le sue chiese medioevali e le fortificazioni) e, invece, su quella che sta alle sue spalle le valenze sono naturalistiche, tanto che quest’area è stata inclusa tra i Siti di Interesse Comunitario.

Vi sono, poi, due distinte sacralità, per le quali esso è particolarmente significativo nella coscienza collettiva: la prima è legata al culto mariano che fa riferimento al santuario di S. Maria del Monte, la seconda è relativa alla devozione verso i caduti della Grande Guerra.  Ognuna di queste celebrazioni, della Madonna e dei morti per la Patria, richiede un proprio percorso, per così dire, di iniziazione i quali hanno come meta, entrambi, la cima del Monte Sant’Antonio. La percorrenza di avvicinamento alla chiesa può essere considerata la Via Matris, quella di introduzione al Sacrario dei periti nelle vicende belliche del 15-18 è il Viale delle Rimembranze. Un duplice, sempre questo concetto, cammino come si vede. Le “pietre miliari” della Via Matris sono le stazioni della Via Crucis, bassorilievi in bronzo, quelle del Viale della Rimembranza gli alberi ognuno dedicato ad un militare deceduto, il cui nome è apposto in una targhetta: anche per tale aspetto si può parlare di doppio, il senso generale di ciò che avviene su questa emergenza montuosa. Non sono doppioni, però, le piante che fiancheggiano i camminamenti in quanto, nonostante siano sempre conifere, la specie del Viale delle Rimembranze è quella dei pini marittimi che con la loro caratteristica chioma ad ombrello si differenziano, piuttosto vistosamente, dalle varietà impiegate per il rimboschimento dei pendii avvenuto circa 50 anni fa. Seppure scelte per ragioni di riforestazione queste essenze vegetali insieme a quelle che affiancano il Viale delle Rimembranze, lo si ribadisce della stessa famiglia, ben si addicono al luogo perché sempreverdi che deve ispirare il sentimento della perennità. Si coglie una duplicità, questa volta non all’interno della Collina Monforte, bensì a livello cittadino nel ricordo dei soldati che hanno perso la vita nel primo conflitto mondiale. Infatti la loro commemorazione si sdoppia (nota bene, ha la medesima radice di doppiezza) perché è a valle, ai margini del Borgo Murattiano, quindi nel cuore della città, che vi è il Monumento ai Caduti il quale non porta l’elenco dei morti, per conoscere i nomi dei quali occorre recarsi sull’altura. In ogni comune molisano, come del resto stabiliva la legge speciale relativa alla celebrazione della Vittoria (nome che viene dato alla piazza campobassana in cui sorge), vi è un’opera scultorea simboleggiante il sacrificio compiuto dall’esercito, la quale nel capoluogo regionale è un obelisco istoriato con le gesta, stilizzate, delle varie armi, un emblema il quale, non fosse che per la sua longevità, risalendo alla civiltà egizia, è la massima espressione del culto della morte.

Nel resto degli insediamenti urbani la statua, sia essa un fante (frequentemente) sia essa l’immagine dell’Italia (es. a S. Massimo), sul cui piedistallo sono apposti i nomi delle persone cadute nelle battaglie, non deve stare isolata per la normativa cui si è accennato, ma circondata da esemplari arborei i quali sono dedicati a ciascuno dei combattenti scomparsi. Occorreva, in altri termini, istituire il Parco delle Rimembranze (è rimasto a Capracotta mentre a S. Giuliano del S. lo si sta ripristinando), spazio verde dove poter meditare in tranquillità sull’attaccamento patriottico di coloro che hanno combattuto, mettendo in pericolo l’esistenza, per la Nazione. L’obelisco è posizionato in un’aiuola a forma di cumulo, che rimanda a quel che si faceva nell’antichità nelle sepolture di uomini valorosi (vedi il Mausoleo di Augusto a Roma). Il punto in cui è ubicato l’obelisco è il posto con il maggior flusso di traffico cittadino, il meno idoneo per raccogliersi in riflessione, ben diverso, dall’appartato Viale delle Rimembranze. Ritornando alla questione del doppione troviamo un ulteriore caso, adesso compreso nella zona terminale del colle che sovrasta il nostro abitato, ed è quello dell’accostamento tra Viale delle Rimembranze e Sacrario. Il Viale oppure, normalmente, il Parco stanno vicino al monumento e questo è l’unico esempio nella regione di continuità, sarebbe meglio affermare di funzionalità del Viale alle tombe dei militi in quanto camminamento che introduce ad esse, funzionalità differente a quella cui sono destinati i Parchi di conferire intimità alle statue evocative del martirio dei soldati al Fronte. Di eccezione in eccezione e spostando le ricerche della duplicità a scala regionale, vediamo che solo qui vi sono i corpi, non solo i nomi, dei caduti  e l’unico parallelo possibile per tale aspetto, cioè il suo “doppio”, è il Cimitero Francese di Venafro; oltre che nella disposizione dei sepolcri che in quest’ultimo sono a terra come usuale in un camposanto, contrariamente a Campobasso dove le salme sono custodite in seno al castello del Conte Cola, il che tanto contribuisce a nobilitarle, è un omaggio a questi eroi, Venafro si distingue da Campobasso poiché si tratta di militari che caddero in una battaglia, quella di Montecassino, svoltasi non distante da lì e invece nel maniero di Monforte sono stati trasportati i resti di individui che morirono in accadimenti bellici avvenuti molto distante, sulle Alpi. Si è obbligati a sottolineare che i soldati che giacciono nel cimitero venafrano non possono essere pianti dai propri familiari i quali risiedono in Francia, mentre quelli che stanno nel Sacrario campobassano possono ricevere il tributo d’affetto dei loro discendenti e della intera collettività della terra natia. La loro presenza nel paese di origine da una parte è fonte, nello stesso tempo, di orgoglio nazionale e locale e dall’altra parte costituisce una consolazione per i parenti che possono toccarne le lapidi, portare un fiore. Il ricordo, di certo, con gli anni va scemando riducendosi al giorno del IV novembre, in cui fu proclamata la vittoria ed è necessario, come è avvenuto nel centenario della fine del conflitto, reinverdire la memoria di quella grande tragedia che fu la I Guerra Mondiale, un monito contro tutte le guerre.

11 - La piazza centrale

Ci sono tanti che non conoscono il nome ufficiale di questa piazza: c’è chi la chiama, correttamente, piazza Pepe, chi piazza Prefettura e chi piazza Cattedrale. In effetti, il posto è «segnato» dalla compresenza dei tre elementi, tutti e tre rilevanti, con il medesimo grado di significatività. La statua di Gabriele Pepe, il Palazzo del Governo e la Chiesa Cattedrale della Diocesi; ciò giustifica in qualche modo, l’intercambiabilità della denominazione nell’uso comune. Deve essere stato un vero dilemma per la commissione comunale che ebbe il compito di stabilire la toponomastica della città prima ancora della scelta del nome quello se tale ampia particella che nello Stradario cittadino è piazza Pepe fosse una realtà unica oppure se andasse considerata come due, o addirittura, tre (se non quattro) luoghi distinti e separati, come si dice, seppure accostati l’un l’altro. 

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Non è un problema da poco, per niente facile da risolvere, il quale si ripete in tutta l’area centrale del capoluogo molisano in cui singoli episodi sono intrinsecamente connessi fra loro, quasi fossero parte di un continuum. Ci stiamo riferendo alla serie di piazze, a partire da quella della Vittoria proseguendo per quella che oggi è diventata piazza Musenga e poi quella del Municipio passando per Villetta Flora che è un’appendice di piazza Pepe, la quale è il punto terminale di tale teoria di spazi pubblici. Essi sono tenuti insieme dal «corso» la cui larghezza e lunghezza ne fanno la componente principale del Borgo Murattiano; sembra che ogni momento urbano della Campobasso ottocentesca sia ad esso subordinato, a cominciare da quello che sono abbiamo indicato come piazza del Municipio e che, invece, agli atti è piazza Vittorio Emanuele II, al quale è intitolato anche il corso, fatto, che rafforza l’idea che si tratti, questi ultimi due, di qualcosa di unitario. Il corso è il filo conduttore che, per un verso, congiunge le superfici aperte del Borgo (peraltro molto superiori a quelle coperte) contigue e, per un verso diverso, le fonde tutte insieme. I legami sono stringenti, non unicamente tra una piazza e la successiva, bensì pure, per via appunto di tale maestoso asse viario, complessivamente fra le varie componenti pubbliche di questo particolare “quartiere” (limitatamente, beninteso, alle parcelle di terreno libero); sono collegate in modo forte le due piazze che stanno ai due capi opposti del corso, i suoi due vertici, di inizio e di fine, non solo in quanto in ciascuna di esse è presente un deciso “segno” verticale, l’obelisco e la statua, costituenti i traguardi prospettici di tale asta stradale, ma anche perché siamo in presenza di due piazze celebrative dell’Unità d’Italia, dedicata la prima alla figura dell’ufficiale molisano che pur in forza all’esercito borbonico era animato da ideali risorgimentali e la seconda ai Caduti della Grande Guerra con cui si conclude il processo di unificazione nazionale, numerazione corrispondente alle fasi di questa gloriosa epopea, quella che la antecede e quella del successo finale. È un unico racconto, con un prologo e un epilogo e le due piazze rappresentano, immaginificamente, l’incipit e la fine, il lieto fine.

Seppure non volessimo seguire la chiave di lettura che si è proposta, cioè il nastro viario che nel suo svilupparsi a tratti si allarga per dar vita ad una piazza e a tratti, invero bravi, si restringe, si deve ammettere, comunque, che siamo di fronte ad una sequenza serrata di piazze (le si è elencate prima), cosa inusitata, non presente in centri analoghi né dentro né fuori della regione. Piazze differenti da tutti i punti di vista, sia dimensionale sia figurativo sia funzionale e soprattutto per rango. Le più importanti sono indubbiamente le piazze sedi di istituzioni civiche e statali e perciò piazza Municipio e piazza Prefettura. Per quanto riguarda il “senso” dei luoghi, il genius loci, la piazza Pepe sulla quale ora ci soffermeremo, nonostante ridotta ad un incrocio di percorsi automobilistici, forse il più frequentato per la sua posizione baricentrica rispetto al tessuto urbanistico costituisce un po’ l’ombelico della città, lo ricorda la sua pianta pressappoco circolare. Vi confluiscono le direttrici stradali provenienti dai diversi quartieri e in questo crocevia nessuna è subordinato da un altra per cui viene a rivelare un carattere egalitario garantendo simbolicamente l’accessibilità al cuore della civitas a tutti i cittadini in maniera identica (ben diverso, per intenderci, sarebbe, se vi fosse un ramo stradale prioritario sul quale il resto della viabilità si deve innestare). La valenza semantica si configura nel non essere un semplice rondò perché sono curvilinee pure le pareti della piazza, idealmente un cerchio, figura geometrica che in modo traslato rimanda, tra i numerosi significati cui si associa, all’assembramento comunitario. I due fronti che la delimitano, i soli in quanto la restante parte del suo perimetro è interessata dal passaggio di strade, uno contrapposto all’altro sono concavi e seppure non estesi sono capaci di suggerire la forma dl circolo; uno dei due lati è costituito dalla facciata dell’ex Banco di Napoli con l’entrata, mentre quello opposto è un prospetto secondario della Banca d’Italia il che farebbe pensare ad una mancanza di interesse, in termini di rappresentatività, di questo istituto finanziario verso tale spazio, quasi voltargli le spalle, se non fosse che proprio un muro privo di ingressi è ciò che serve a questa piazza, un muro tondeggiante che viene a fungere da nicchia grande anche, se non tanto da essere scambiata per un emiciclo, sul retro della statua dell’eroe (ci si può camminare intorno e scoprire che anche la veduta posteriore di tale scultura è assai bella per i panneggi del mantello mossi dal vento). Per inciso, è una fortuna che si sia optato all’epoca per una disposizione su un bordo della strada e non al centro, seguendo il modello classico della place royale, centro occupato oggi da un alto lampione, altrimenti essa sarebbe diventata inevitabilmente una specie di spartitraffico come succede in molte situazioni. È da sottolineare, inoltre, che sulla piazza convergono due rappresentanze di enti, ambedue del campo economico, che hanno la sede direzionale all’esterno del Molise, le quali, per la prima volta, qui da noi, vengono ad assurgere all’”onore” di fronteggiare una piazza, posizione che ne accresce presso la popolazione il prestigio. Va, in aggiunta, notato che non vi sono residenze e negozi, la cui presenza renderebbe questo uno spazio ordinario e non extraordinario, la sensazione che si prova qui, in quanto l’unica piazza circolare, disegno planimetrico che la rende un luogo un po’ astratto essendo difficile l’edificazione al contorno. Si evidenzia, in ultimo, che in tale punto Berardino Musenga pose nel suo piano per il Nuovo Borgo uno snodo viario che la piazza in fin dei conti conferma.

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12 - La stazione ferroviaria

Tra i vuoti della nostra città il più esteso è sicuramente quello del parco ferroviario. All’origine e fino a quando la città non si è sviluppata oltre la strada ferrata, la quale rappresenta una cesura tra la zona centrale e i quartieri sorti sotto la ferrovia, l’area della stazione era il limite, addirittura fisico, dell’abitato e perciò essa non era sentita come un vuoto urbano. All’epoca la stazione era periferica per cui non c’erano problemi di spazio, di quantitativo di superficie che potesse occupare, non era contesa per altri usi cittadini. Se oggi si parla del decadimento presso la stazione di Ripalimosani di alcune funzioni, tipo la manutenzione corrente e il deposito dei locomotori di “riserva” per liberare una quota del suolo, prezioso in quanto prossimo al centro dell’abitato, ingombrato dal movimento dei treni e dei passeggeri e da ciò che è loro connesso, prima tale preoccupazione era del tutto assente ed a ragione per ciò che si è detto. 

Al principio abbiamo iscritto il parco ferroviario nella categoria dei vuoti anche se esso, nonostante che certi reparti siano stati trasferiti altrove, a Benevento la riparazione dei convogli, appare un luogo ancora movimentato, in cui si svolgono molteplici attività e, dunque, alla stregua di un pieno. La stazione è un microcosmo, un mondo a sé rispetto al contesto urbano con il quale interagisce per via del transito di persone in partenza e in arrivo e poco più. È una vita a parte, con le sue logiche legate alla necessità di garantire il funzionamento dei collegamenti su ferro, in passato colonna portante del sistema di comunicazione nazionale. La stazione comprende manufatti edilizi di forma e dimensioni disparate, dagli hangar per il rimessaggio delle carrozze, ai capannoni per il deposito del materiale rotabile pronto per essere impiegato per sostituzioni lungo la linea, al blocco dei servizi igienici fino ai locali del dopolavoro trai quali vi è la sala per spettacoli che viene utilizzata pure per manifestazioni pubbliche. Vi sono poi i magazzini in disuso e, però, da conservare essendo interessanti testimonianze di archeologia industriale, nei quali veniva immagazzinata la merce, innanzitutto i cereali, in attesa di essere caricata sui treni merce, cosa che oggi è solo un ricordo. L’insieme che ne viene fuori, per chi non è esperto di logistica ferroviaria è alquanto confuso, come se mancasse un progetto unitario e che si tratti di un non univocamente determinato accostamento e, perciò, affastellamento di corpi di fabbrica, di binari compresi i loro scambi, di pensiline, quella addossata al corpo principale (ma non al fronte principale, bensì, è ovvio, sul retro), la stazione ferroviaria vera e propria, e quella collocata sopra la piattaforma a isola, la forma di quelle banchine in cui i treni possono sostare su entrambi i lati (i binari 2 e 3); il tutto in un dominio ampio delimitato nel senso della lunghezza  ai due capi da portali metallici che sorreggono i semafori (la paletta del capo stazione di un tempo), una specie di porte di accesso alla stazione per i treni. Ad avvalorare l’opinione che non sia frutto di una stringente programmazione l’assetto raggiunto dal parco ferroviario vi è la considerazione che esso è frutto anche di modifiche intercorse nei suoi quasi 150 anni di vita, le quali hanno riguardato lo stesso edifico-stazione che non è quello originario; gli ultimi interventi realizzati sono stati la palazzina con le residenze delle famiglie dei ferrovieri, i due scavalcamenti del fascio dei binari, l’uno interrato, il sottopasso, e l’altro aereo, il sovrappasso, il parcheggio a pagamento e la sistemazione del piazzale su piazza Cuoco che lo ingloba. La stazione dell’altro capoluogo di Provincia è più grande, grandezza dovuta al fatto che qui avveniva il cambio delle locomotrici le quali occorreva che fossero più potenti per affrontare le tratte montane che conducono a Sulmona e alla “capitale” del Molise, rispetto a quelle con minore dislivello che da Roma e da Napoli portano al centro pentro; con la modernizzazione dei mezzi di locomozione tale operazione non è stata più necessaria e, quindi, una porzione del parco ferroviario è diventata inutilizzata.

Sul terreno dismesso, previa bonifica del sito, si sta procedendo alla creazione di un’oasi a verde, cosa che potrebbe avvenire pure a Campobasso; si ritiene per ciò che si è detto sopra, che ci siano margini di manovra, razionalizzando il layout della stazione, il suo schema distributivo il quale, comunque, andrebbe aggiornato se non fosse altro perché oramai datato. La parcella sgombra risultante potrebbe trasformarsi in un giardino pubblico, tanto più strategico in quanto, come a Isernia, esso è nel baricentro dell’agglomerato abitativo. Inoltre, tramite un breve collegamento pedonale da allestire, o, magari, sfruttando la passerella sopraelevata esistente esso potrebbe essere ricongiunto alla vallecola dello Scarafone che il PRG indica come Zona urbanistica destinata al tempo libero. In definitiva, si avrebbe la trasmutazione da parco ferroviario a parco urbano, con uno slogan. L’elettrificazione della linea che porterà alla dismissione dei treni con motore diesel che sono inquinanti e rumorosi e ciò garantirà la salubrità dell’aria in quest’area. Si sta parlando di ferrovia, la quale, ad ogni modo, rientra in un tema più generale, quello del sistema dei trasporti, sia su ferro che su gomma. Non del tutto casualmente nelle vicinanze della stazione c’è il Terminal degli autobus il quale è connesso alla viabilità urbana e extraurbana da una serie di svincoli, fino a configurarsi una sorta di rondò: si è venuto a costituire, lo si ripete non del tutto casualmente, un polo intermodale con il traffico ferroviario, quello delle autolinee e quello automobilistico che interagiscono fra loro. È una buona combinazione quella del treno impiegato per le lunghe percorrenze, con quello dei pullman, destinato ai tragitti interni al territorio regionale, e con quello delle auto private che sono, volente o nolente, un comparto notevole della mobilità. Ciò, è scontato, ad esclusione della Metropolitana Leggera, tutta un’altra storia. 

Il Terminal non lo si è introdotto nel discorso in corso solamente per questo, ma anche quale “pietra di paragone” con lo scalo ferroviario, in quanto è dalla comparazione che emergono le peculiarità. La stazione dei bus, chiamiamola così in assimilazione a quella di treni, è un’opera di impianto, come si dice in gergo architettonico, figlia di un disegno progettuale definito, a differenza dell’altra che, nella sua conformazione attuale, è il frutto di numerose aggiunte, assai più che di sottrazioni. In comune hanno la caratteristica di essere essenzialmente dei vuoti, sì, anche il Terminal pure se coperto per intero, ma si tratta, la copertura, di una vasta tettoia, la quale non è altro che una vasta pensilina. A dare la sensazione che siamo dentro una entità spaziale vuota è la distesa di pannelli traslucidi in policarbonato che si estende sopra di essa i quali hanno la capacità di togliere consistenza alla pur sempre volumetria, la quale quasi si dissolve alla luce. Lo scalo ferroviario attraverso la collaborazione che riceve dal Terminal incrementa la sua attrattività. Si ha l’impressione che non regga il confronto riguardo alla frequentazione da parte della cittadinanza (i viaggiatori, non chi va lì a bighellonare) con lo scalo isernino pur essendo, lo si ribadisce, entrambe un fulcro della struttura urbanistica. Sarà perché qui l’edificio-stazione è allo stesso livello delle banchine di arresto e avvio dei treni, mentre a Campobasso l’ingresso all’edificio-stazione è ad una quota sfasata, superiore a quella dei binari e, pertanto, almeno psicologicamente, il fatto che si è costretti a scendere per salire in carrozza, secondo un’espressione antica, dissuade dall’uso del treno. E poi metti la trasparenza delle pareti della stazione di Isernia che sono (a pianoterra, di certo) interamente vetrate, dal lato della piazza e da quello del parco ferroviario, in ciò suggerendo l’osmosi, vista con gli occhi degli psicologi e degli architetti, tra lo spazio urbano e quello del seducente universo delle strade ferrate, una visione d’incanto.

13 - I colori nella città

Il colore non è tutto ma aiuta, è un contributo a rendere l’abitato più vivace. Non tutti pensano, però, ciò. Vedi il cosiddetto palazzo di vetro di viale Elena caratterizzato da superfici esterne in vetro le quali sono la negazione assoluta della facciata: essendo stato abolito il muro non vi è, di conseguenza, una superficie sulla quale applicare i colori. È un edificio che segue i dettami dell'International Style, una corrente dell'architettura contemporanea il modello di riferimento sono i grattacieli disegnati da Mies van Der Rohe. Sempre al Movimento Moderno si ispirano ma adesso ad una tendenza artistica completamente diversa, il surrealismo un cui esponente significativo è Magritte, le facciate coperte da murales che sono apparse recentemente nella scena urbana del capoluogo regionale. Nel primo caso c'è la rinunzia totale alla colorazione, nel secondo caso c'è addirittura la sua esaltazione per la varietà e intensità delle tinte adoperate. I due estremi, l'assenza di tinteggiatura e la sua presenza esorbitante, ma vi è anche una "terza via" che è l'applicazione di una tinta per antonomasia neutra che è il grigio. Del fabbricato in linea che si trova salendo a destra all'inizio di via Leopardi, sempre nella "capitale" del Molise vi è sui fronti esterni il cemento a faccia vista il che porta a cogliere qualche assonanza con il Brutalismo, un ulteriore orientamento stilistico dell'architettura moderna.

Il Brutalism era un modo per contestare in maniera dirompente il passato, le forme estetiche passatiste, mentre qui esso perde ogni carica eversiva e diventa uno stilema rassicurante. La casa-madre dell'architettura contemporanea rimane il Razionalismo, il grande alveo in cui confluisce, vuoi o non vuoi, ogni corrente stilistica per cui anche quella Brutalista. L'architettura razionalista ha quale principio cardine quello della "verità" della struttura ovverosia che il sistema strutturale debba essere percepibile dall'esterno, cosa che puntualmente avviene qui con i pannelli prefabbricati in conglomerato cementizio aventi funzione portante che non sono mascherati bensì visibili dalla strada. È considerata razionalista la ex-Gil dove nel portico che funge da atrio vi sono figure a grande formato in stile Novecento, l'unica nota di colore nella Campobasso durante il fascismo il quale ben si sa amava il Nero e tutt'al più l’orbace, ambedue scuri. Sono stati realizzati con la tecnica dell'affresco per cui dovevano essere posizionati al coperto, non potevano essere esposti all'intemperie; oggi lo spazio che li contiene è stato delimitato con lastre vitree il che riduce la visibilità di questi dipinti dai percorsi fianco al contorno della un tempo sede della Gioventù Italiana del Littorio, per cui non possono essere più partecipi del panorama coloristico cittadino. Il problema della protezione delle pitture all'aperto non esiste più da quando si è affermato l'impiego delle tinte acriliche e da allora è iniziato l'approntamento di murales sui muri perimetrali di tante costruzioni. Nel principale centro della regione si è fatto poco uso nei prospetti degli organismi edilizi del rivestimento in ceramica e quando lo si è fatto sono state impiegate piastrelle monocrome (la palazzina in cui è allocato l'Archivio di Stato in v. Orefici e prima anche il "grattacielo" da cui la ceramica venne eliminata a causa del distacco di tessere). Al contrario ad Isernia gli allievi diplomati alla scuola d'arte Manuppella hanno lasciato numerose testimonianze in città della loro abilità nella lavorazione dell'argilla come la decorazione, non integrale, dei fronti dell'Istituto magistrale dove siamo al cospetto di mattonelle policrome; non da molto è stata completata la "lottizzazione Ciampitti" in cui la ceramica multicolore la fa da padrona sulle facce esteriori dei fabbricati. In verità, pure a Campobasso fino a pochi decenni fa faceva bella mostra di sé il rivestimento ceramico in policromia di una casa collocata nel cuore del centro storico, in Piazza San Leonardo, un vero pugno nell'occhio; per fortuna che esse poi sono state eliminate. Nella tavolozza delle tinte che ravvivano l'ambiente urbano di Campobasso è quasi del tutto assente il color mattone se si escludono il Banco di Napoli, le "specchiature", porzioni in laterizio delle facciate della Banca d'Italia e le pareti ventilate con tavelle in cotto presenti nella Città nella Città. E ciò forse per l’abbondanza di materiale lapideo presente in loco, la cava dei "monti", e nei dintorni.

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Nel Basso Molise, invece, per la carenza di pietre da costruzione si è fatto uso del cotto anche in opere monumentali, prendi l'imponente Palazzo Cini a Portocannone. Il color rosso, appunto, mattone correggendo, per certi versi, quanto appena detto è, viceversa, dominante nelle vedute dall’alto del castello Monforte da cui si può ammirare la distesa sottostante dei tetti con tegole in argilla. Tale dominanza del rosso nella vista da punti elevati delle coperture di un nucleo abitativo tradizionale sembrerebbe una cosa scontata per i comuni molisani e, di sicuro, è una cosa vera per la stragrande maggioranza dei paesi, ma non per tutti. L'eccezione è rappresentata dai borghi del comprensorio territoriale prossimo a Frosolone dove sono tipiche, invece dei coppi, le “licie” le quali hanno una colorazione grigiastra, il colore della pietra affiorante nell'agro per cui qualora lo sguardo abbracci, in una lista di insieme, il centro abitato e la campagna le licie sui tetti e gli affioramenti lapidei nei dintorni tendono a confondersi fra loro. Infine, sono da aggiungere due cose: l’una è quella che le tinte cambiano a seconda se si trovano in zone d'ombra o in piena luce per cui la palette dei colori è più ampia di quella fornita dal Pantone e ciò accade quando la pittura viene stesa sulla parete di fondo di un portico, mettiamo quello del Municipio, o se è sulle colonne rettangolari dello stesso che sono in primo piano; l'altra è che le colorazioni mutano nelle ore notturne diventando indistinguibili negli angoli dell'abitato più bui, mentre l'illuminazione artificiale ne falsa la visione, con effetti che variano in dipendenza della sua intensità e della collocazione dei corpi illuminanti.

14 - La fascia di frizione tra città e campagna

Bisogna fare nuovi piani paesistici, non l’aggiornamento di quelli esistenti, è questa l’opzione prevista dal Codice Urbani scelta dalla Regione. Sarebbe stato più facile, di certo, aggiornare che procedere ad una pianificazione paesaggistica ex-novo. L'obiettivo della revisione dei vecchi strumenti di piano ha il sapore di un obiettivo minimale, avrebbe rappresentato la rinunzia a voler salvaguardare l'intero patrimonio paesaggistico molisano. Tra le aree non comprese, che ora sarebbero ricomprese, nei precedenti piani paesaggistici ci sono gli ambiti comunali dei due capoluoghi di provincia. L'esclusione avvenuta in passato è comprensibile per le difficoltà connesse al governo dei processi di trasformazione territoriale in atto in realtà complesse quali sono tali entità urbane, le maggiori, insieme a Termoli, del Molise. Dall'altra parte, risiedendo qui quasi un quarto della popolazione molisana non provvedere alla salvaguardia dei contesti visivi così come delle valenze naturalistiche e culturali significa privare i loro cittadini di un ambiente di vita qualitativamente elevato. È un diritto che sancisce la Convenzione Europea del Paesaggio. Uno dei tratti più caratteristici delle unità insediative è, di sicuro, la fascia di orti che circondano l'abitato, in molti casi circondavano perché diventata Zona di Espansione residenziale.

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L'orticoltura periurbana era essenziale per rifornire gli abitanti del, diciamo così, centro città di prodotti freschi per il consumo giornaliero, così come la zootecnia “fuoriporta” il latte; il Mercato Coperto del capoluogo regionale era nato essenzialmente per favorire la commercializzazione di merce deperibile la quale di necessità deve essere a km 0. Da quando si sono andate perfezionando le tecniche di refrigerazione degli alimenti che permettono il loro trasferimento a distanza in tale mercato vengono poste in vendita anche produzioni agricole provenienti da più lontano. A meno di non voler provare a far crescere cocomeri nella campagna campobassana è evidente che rimarranno sempre poco “sostenibili" le angurie e meloni poiché culture bassomolisane il cui trasporto fin qui tramite furgoni provoca emissioni di CO2 in atmosfera. Se c'è un vantaggio in termini di sostenibilità nell'offerta sui banchi del Mercato Coperto di frutta e verdura coltivata altrove è nel fatto che sono acquistate sfuse, prive di imballaggi, mentre dal punto di vista dell'economicità va a favore delle tasche dei consumatori la vendita diretta, ciò l'assenza di intermediazione commerciale con i conseguenti costi aggiuntivi. Le considerazioni che si sono appena esposte mirano a mettere in evidenza l'importanza, non solo ai fini strettamente paesaggistici, della conservazione dei territori ortivi a ridosso degli aggregati abitativi, in particolare dei più grandi evitando il formarsi di un dualismo netto tra Città e Campagna. Bisogna riconoscere a quest'ultima, specie alle aree agricole confinanti con l’urbanizzato, il ruolo, oltre che di fornitore di cibo sano a due passi da casa, una sorta di agricoltura di prossimità, di rigenerazione dell'aria "corrotta" dai miasmi del traffico cittadino, di spazio per la ricreazione all’aperto. Una cosa simile a quelle che Pierluigi Cervellati a proposto nel PRG di S. Croce di Magliano, la creazione di una cintura verde. Il piano paesaggistico che comprende gli insediamenti di taglia più elevata dovrà combinarsi con il Piano Regolatore Generale del Comune; il coordinamento tra essi è una specificità delle entità cittadine in quanto le piccole realtà comunali, nella stragrande maggioranza qui da noi, sono munite semplicemente del Programma di Fabbricazione il cui campo d'azione è limitato al costruito e agli ambiti urbanizzabili, non includendo l'intero perimetro comunale. Già da quel poco che si è detto si può capire come sia un'impresa ostica la stesura di un piano paesistico per un areale ricomprendente un agglomerato urbanistico di rilevante consistenza ed in effetti è così e però è un'operazione sempre meno ardua di quella di pianificare paesaggisticamente l’agro. 

In città, salvo la questione affrontata degli ambiti periferici dove si ha la transizione tra urbano e rurale per il resto si tratta semplicemente di stabilire la forma degli edifici da costruirsi, le altezze dei volumi, la preservazione degli spazi a verde pubblico o privato, il recupero di siti abbandonati e di superfici occupate da attività produttive ormai dismesse e poche altre cose simili. Nonostante la città sia per antonomasia un organismo, vivente, in costante movimento e meno soggetta a trasformazioni radicali del circondario rurale, essa può solo avvilupparsi su sé stessa, magari "rigenerarsi", ma non modificarsi totalmente. Nonostante la campagna appaia nell'immaginario collettivo come il regno dell'immutabilità essa costituisce in verità un contesto del tutto instabile. Per le città è lecito usare il motto famoso del principe di Salina nel romanzo il Gattopardo: “tutto cambi (con l'ovvia eccezione dei centri storici tutelati per legge) perché tutto rimanga com’è”, a differenza delle campagne che, invece, sono esposte a rivolgimenti profondi e, per di più, repentini come quelli dovuti al passaggio di nuove arterie di comunicazione, di livello regionale e nazionale o infracittadino, si pensi all'anello in corso di completamento delle tangenziali intorno a Campobasso, al transito delle reti di trasmissione dell'energia elettrica ad alta e media tensione, alla realizzazione degli impianti di depurazione e così via. Insieme ai fattori esterni vi sono quelli interni alla stessa campagna legati all'introduzione di moderni indirizzi agronomici, ai capannoni zootecnici, ecc.. Spesso sono opere e innovazioni che hanno il sapore dell’imprevedibilità per cui sono cambiamenti che mettono in grave difficoltà il pianificatore.

15 - Mercato e fiera a Campobasso

Campobasso è stata, purtroppo oggi non lo è più, sede di importantissime fiere. Le due principali sono quelle legate alle due transumanze, una primaverile e una autunnale; la nostra città è stata un punto di passaggio nevralgico della transumanza e per questa ragione qui venne ubicata la Doganella, una sorta di succursale della Dogana di Foggia. Nel capoluogo regionale confluiscono tutti i tratturi del Contado di Molise, sia direttamente, il Castel di Sangro-Lucera, sia tramite il Braccio Trasversale, il Pescasseroli-Candela e il Celano-Foggia. Le fiere che qui si svolgevano all’andata e al ritorno degli armenti transumanti duravano più giorni dovendovi affluire le greggi che avanzavano in modo cadenzato, non tutti insieme, lungo le piste tratturali. 

Questa dell'essere plurigiornaliera è una caratteristica saliente di una fiera che la distingue dal mercato il quale si esaurisce nella stessa giornata, non conta se si ripete all'indomani per l'intero arco dell'anno come avviene a Corso Bucci o se si replica settimanalmente, nel caso di Bojano. È interessante il confronto con il mercato perché fa emergere anche altre peculiarità della fiera. Una di queste è la postazione in cui si tengono: il mercato lo si fa nel mezzo dell'abitato in quanto rivolto a soddisfare i bisogni ordinari dei cittadini, si pensi a quelli alimentari cui è destinata la "piazzetta di via Palombo", mentre il luogo della fiera è collocato ai margini dell'agglomerato urbano. Solitamente in un prato il quale per essere idoneo deve essere in piano ed appunto il Piano delle Campere è la superficie deputata alle fiere dove in seguito, in seguito all'abrogazione della transumanza avvenuta nel 1805, venne posizionato il Borgo Murattiano, localizzazione d’elezione in quanto sito ampio e pianeggiante. Certo all’epoca era un'area periferica ma mica tanto poiché contigua all'appendice suburbana sviluppatasi a partire dal XVI secolo fuori le mura, il rione dei Trinitari, fazione cittadina che fa capo alla chiesa della SS. Trinità destinata a diventare più in là cattedra vescovile. Una motivazione di questa scelta localizzativa per la fiera è, di sicuro, quella della morfologia pianeggiante del terreno, condizione necessaria e però non sufficiente in quanto nei dintorni, più distante comunque dall'aggregato insediativo, vi è anche un'altra piana, Selva per l’appunto, Piana in cui non a caso il Piano Regolatore Generale ha collocato la Zona Fieristica. Per inciso, tertium non datur trovandoci in un comprensorio collinare per cui le pianure sono rare. Il vantaggio della disposizione conforme, diciamo così, alla zonizzazione urbanistica, ovviamente di alcuni secoli successiva, sarebbe stato quello di allontanare dall'insediamento abitativo gli odori molesti, il rumore, la sporcizia causati dall'ammassamento dei capi ovini partecipanti alla fiera, lo svantaggio che la fiera non avrebbe goduto della protezione della milizia feudale che era a presidio della cinta urbica poiché lontana. È da ricordare che all'epoca dell'istituzione per vie legali (il decreto di Alfonso il Magnanimo) della transumanza era Conte di Campobasso il genero di Paolo di Sangro il quale fu il primo Arrendatore della Dogana, il carismatico Cola di Monforte che realizzando le fortificazioni urbane fu capace di garantire la sicurezza che necessitava ai commerci. Non è detto, poi, che in passato le manifestazioni fieristiche rappresentassero un disturbo per la cittadinanza, anzi è probabile che esse venissero viste come un segno di vivacità della città, un'occasione di scambi economici e nello stesso tempo culturali, non ce n’erano altre. Non era disonorevole che si svolgessero vicino agli ambienti di vita se non, addirittura, dentro come nel caso in ispecie con la fiera che occupava, limitatamente al periodo ad essa assegnato, uno slargo conventuale, il sagrato della chiesa della Libera pertinenza del monastero dei Celestini, Madonna il cui culto è ancora molto sentito dai campobassani tanto che tale spazio è tutt'oggi identificato quale largo della Libera.

La questione religiosa non è una faccenda secondaria, eventi fieristici e celebrazioni di divinità vanno insieme, il calendario delle fiere è regolarmente legato a quella dei Santi e pure qui succedeva così. Non è infrequente neanche che alle fiere si associno i pellegrinaggi, si verificava a Canneto famoso santuario mariano sul greto del Trigno. Sia che ci sono i pellegrini sia che non ci sono, fiera e festa è un binomio indissolubile e la dimostrazione lampante è la festività del Corpus Domini in cui la "capitale" del Molise è invasa da bancarelle con ogni genere di mercanzia e ad un tempo si perpetua lo spettacolo della sfilata dei Misteri, sacro e profano risultano congiunti. La logica funzionalista ha portato a relegare la fiera, Fiera, in aperta campagna seppure abbastanza agevolmente raggiungibile dal centro cittadino, vi è uno svincolo lungo l'anello delle tangenziali. Tra fiere e mercato, riprendendo la comparazione, in età contemporanea si riscontra l'emergere di connotati comuni tra i quali vi è la tendenza ad aver luogo al chiuso, non più all'aria aperta. Il Mercato, non per niente, Coperto sostituisce quello tradizionale di piazzetta Palombo mentre per la fiera viene realizzato un apposito grande padiglione con annessi ulteriori corpi di fabbrica a costituire un vero e proprio quartiere fieristico. Ciò che colpisce maggiormente nell'evoluzione tipologica che ha subito la fiera è il fatto che avendo realizzato allo scopo un fabbricato destinato a ospitarla, un manufatto stabile non prefabbricato smontabile, non viene più concepita quale avvenimento, quello fieristico, temporaneo, al contrario permanente e perciò cambia financo natura ovverosia ragione sociale ovverosia ragione d’essere. Questa struttura per giustificare la sua esistenza deve funzionare tutto l'anno con plurimi appuntamenti fieristici. Al volume per le esposizioni si affianca un auditorium in cui si dibatte sulle novità del mercato, si illustrano le problematiche dei vari settori merceologici.

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16 - La rete ecologica

Essendo il nostro un centro, tutto sommato, di piccole dimensioni, una piccola città esso partecipa strettamente con il contesto territoriale. Per rendersi conto di ciò basta riflettere sul fatto che da qualsiasi punto di questo abitato si percepisce il territorio che sta all’intorno. La città, comunque, per quanto piccola sia, viene a rappresentare una barriera che disarticola la rete ecologica, spezzando la continuità dei corridoi naturalistici. Campobasso si trova tra 2 Siti di Importanza Comunitaria, Montevairano e il corso mediano del Biferno, intermezzati proprio nell’ambito cittadino dal SIC Collina Monforte. Non è solo l’agglomerato urbano a costituire un elemento di separazione del sistema ambientale, ma anche la sua fascia periurbana. La campagna campobassana si va trasformando per via della diffusione insediativa e delle infrastrutture di comunicazione che l’attraversano, il semianello (almeno finora) delle Tangenziali e le due arterie che allacciano il capoluogo regionale con la Bifernina, l’asse viario principale della regione, l’Ingotte e la Rivolo, costituendo, il loro insieme, un sensibile fattore di frammentazione della struttura naturale o, meglio, seminaturale del comprensorio in cui ricade la “capitale” del Molise (per fortuna che la ferrovia in direzione Roma nelle vicinanze di essa corre in galleria!). Ritenute inevitabili le strade occorre arrestare la dispersione delle abitazioni nell’agro predisponendo finalmente il “piano di recupero degli insediamenti abusivi” il quale dovrà contenere il blocco di ulteriori episodi edilizi. Quella che si è verificata nel suolo agricolo è un’edificazione di villette unifamiliari a bassa densità fondiaria che non configura proprio una garden city bensì un’aggregazione informe di edifici nei quali ormai vivono migliaia di cittadini. I danni di tale proliferazione di costruzioni sub-urbana e, a tratti, in aperta campagna sono evidenti in termini di costi che la municipalità deve sostenere per fornire servizi, in primis le fognature la cui assenza ha provocato l’avvio di una procedura di infrazione europea. È, ovvio, un tema che riguarda l’ambiente così come quello che una città troppo sparsa rende difficile l’organizzazione del trasporto collettivo per cui si rende obbligatorio l’impiego dell’auto privata.

Terminal Campobasso

Visto lo stato di fatto una misura minima auspicabile da adottarsi è quella della sostituzione, o, perlomeno, affiancamento, alle attuali recinzioni, magari a scomputo degli oneri da pagare per il condono del cambio di destinazione del fabbricato, da annesso agricolo ad abitazione, con siepi le quali permetterebbero alla microfauna di trovare rifugio all’interno di esse. Lasciando ora l’area extraurbana e approssimandosi alla zona centrale si segnala la mancata realizzazione del parco urbano dello Scarafone il quale è, evidentemente, il canale privilegiato per portare la natura in città. Una città che ha bisogno di natura, innanzitutto della componente vegetazionale, in particolare di alberi, soprattutto di grandi dimensioni quali quelli che fino a poco tempo fa facevano corona alla strada di ingresso all’ambito cittadino anche per contrastare il fenomeno delle ondate di calore che si sono registrate con una certa frequenza riuscendo a intrappolare l’irraggiamento solare. Il progetto di parco di Montevairano che interessa i Comuni di Campobasso, Busso e Baranello risponde a molteplici obiettivi. Si tratta di un “parco attrezzato”, dotato perciò di infrastrutture. Le attrezzature sportive non sono state pensate solo per le esigenze della popolazione che gravita nel territorio circostante al parco, ma anche per favorire lo sviluppo turistico perché le infrastrutture per lo sport possono contribuire a valorizzare il territorio e l’ambiente. Il parco, poi, è ovviamente pure uno spazio a verde, attrezzato per lo svago domenicale specie degli abitanti del capoluogo regionale. A proposito di Campobasso è comunque da dire che la superficie del parco di Montevairano ricadente nel suo territorio comunale non può essere certo inserita tra le aree che servono a soddisfare lo standard urbanistico di 9 metri quadri di verde ad abitante. Ciò perché il verde non è una cosiddetta “attrezzatura trasferibile”, ma deve essere collocato in prossimità delle abitazioni formando una parte essenziale dei quartieri residenziali. Se fosse ammissibile, dal punto di vista delle norme urbanistiche, al contrario è facile immaginare che molti boschi vicino alle città potrebbero essere computati tra le zone a “verde urbano”. Infatti è sicuramente più basso il loro valore economico rispetto a terreni posti nel centro della città. Seppure non si tratti di attrezzature urbane, aree verdi come quella di Montevairano situate al perimetro dell’agglomerato insediativo devono essere collegate alle zone destinate al verde pubblico che stanno dentro la città attraverso corridoi di naturalità e devono essere raggiungibili da queste mediante sentieri, piste ciclabili, ecc..

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Il parco di Montevairano può essere visto pure quale parziale «cintura verde», un concetto caro all’urbanistica di qualche tempo fa che auspicava la creazione di barriere vegetali all’espansione dell’insediamento. Il bosco di Montevairano non ha solo la funzione di argine alla crescita a macchia d’olio della città, almeno da questa parte, ma anche di filtro naturale contro l’inquinamento atmosferico. Piuttosto che partire dal concetto di «cintura verde», il parco di Montevairano si giustifica meglio con l’esigenza di avere uno spazio destinato alle attività all’aperto nell’ambito metropolitano del capoluogo regionale. La migliore ubicazione per le attività ricreative non può derivare da studi di localizzazione ottimale, ma va legata alla presenza di terreni intrinsecamente adatti alle attività “verdi” come è un bosco. In altri termini la scelta di un sito per un parco urbano non scaturisce da analisi dei bacini di gravitazione dell’utenza o dalla sua vicinanza con strade di comunicazione, ma innanzitutto dalle caratteristiche ambientali dell’area che devono essere dal punto di vista estetico e biologico elevate. Bisogna poi tener in conto che è nei territori in quota che si ha (vedesi proprio Montevairano) una prevalenza dei fattori di tipo naturale in quanto qui c’è una ridotta frequenza fisica dell’uomo la quale cresce man mano che si scende nella fascia collinare; l’assenza dell’azione antropica e le valenze di ordine vegetazionale del mondo animale determinano la significativa qualità ambientale di questo bosco. L’alto dinamismo che l’uomo imprime al territorio specie nel piano basale sta portando verso un’urbanizzazione totale dell’agro per cui rimangono solo pochi elementi naturali che nella zona urbana si limitano, (mancando a differenza di altre città un corso d’acqua) alla collina Manforte e a quelle porzioni di terreno agricolo che si incuneano nella città. Il bosco di Montevairano è in definitiva un raro lembo di natura ancora ben conservato e perciò merita di essere trasformato in parco.

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17 - Innovazioni in architettura

Vi sono stati significativi, seppure a sprazzi, cambiamenti nel panorama urbano e qui si prova ad analizzare taluni di questi. Si precisa che ci si interessa principalmente delle emergenze architettoniche e solo in coda della produzione edilizia ordinaria. Sono comparse in città architetture assai diverse da quelle del passato che si caratterizzano per gli innovativi sistemi tecnologici che adottano.

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Se in precedenza l’idea di modernità è stata rappresentata dall’impiego del ferro nelle costruzioni, la pensilina a sbalzo di piazzetta Palumbo e quella sorretta da colonnine che doveva esserci nella stazione ferroviaria, da presupporre simile a quella ancora presente nella stazione di Larino, oggi si fa ricorso a prodotti per l’edilizia e tecnologie costruttive più avanzate. Per fare in modo, data la dimensione maggiore della superficie che occupa rispetto a quella di una banchina per l’attesa dei treni, la copertura del Terminal autobus è formata da una serie di voltine a botte in policarbonato, una sostanza, che prima di certo non c’era, traslucido il quale consente la penetrazione della luce al di sotto nello spazio destinato alla sosta dei viaggiatori. La profondità di tale spazio, superiore di molto a quella di una piattaforma a fianco di binari per i passeggeri che aspettano i treni, richiede che esso sia illuminato naturalmente dall’alto. È la differenza tra una tettoia, Terminal, e un portico, pensilina. Per evitare un eccessivo ingombro a terra da parte di tanti pilastrini si è scelto che la copertura sia sospesa e anche questa è una innovazione tecnica. Sempre in materiale metallico, ma con una concezione strutturale completamente diversa, sono le cupole geodetiche dei campi da tennis di Villa De Capoa, le quali sono dei solidi “platonici”, nel caso in ispecie, ottaedri, una forma che non si era mai vista prima in città. Una immagine davvero moderna, che rimane tale nonostante il mezzo secolo scorso dalla sua messa in opera, è la facciata vetrata, il curtain wall che garantisce grande luminosità agli uffici, non andrebbe bene per le abitazioni, in particolare per le camere da letto, nel palazzo detto, appunto, palazzo di vetro di viale Elena.

È addirittura futuristica in quanto sembra sfidare le leggi della statica la conformazione della palestra universitaria con i suoi arconi, con funzione portante, inclinati, alternativamente in un verso e nell’opposto, che, due a due, sono tangenti fra loro nel vertice quasi a volersi sostenere l’un l’altro. Ancora un edificio dello sport, il bocciodromo, ma ora fatto di legno il quale è lasciato a vista, in bella mostra. Il mancato trattamento superficiale delle travature in legno è una scelta appropriata quando si vuole mettere in evidenza la genuinità dell’oggetto, la sua materialità, l’essere fatto di una materia naturale. Per i fabbricati ad uso civile e specialmente per le fabbriche rappresentative il legno o viene colorato o viene rivestito; queste categorie di manufatti chiedono di essere rivestiti in facciata.

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Le travi di questo impianto per il gioco delle bocce sono in legno lamellare il quale è un materiale composito ottenuto com’è dall’incollaggio di fibre legnose, le lamelle, non è legno massiccio, è un materiale artificiale. Il legno allo stato grezzo si addice, nel modo di sentire comune, alle opere utilitarie quale può essere un capannone artigianale o un locale di servizio e, pure, per volumi destinati allo svolgimento di attività fisiche, un palazzetto per lo sport. Il legno come si trova in natura può essere sostituito da qualche materia che imita il legno in simili strutture. Il legno messo in evidenza, più che in faccia vista in bella vista, nelle costruzioni all’inizio possedeva se utilizzato al di fuori dei casi elencati sopra una carica eversiva che nel tempo ha perso tanto è diventato di uso corrente, magari acquistando un nuovo senso legato alla sostenibilità.

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L’elemento che, comunque, ci ha fatto entrare pienamente nella contemporaneità, anche perché è la componente base della produzione edilizia per così dire di massa, non di singoli episodi costruttivi, quelli pur d’eccellenza illustrati in precedenza, è il cemento nella sua peculiare associazione con l’acciaio a dar vita al cemento armato. Una tecnica che ha avuto una valenza primaria nella configurazione dell’attuale assetto urbanistico. La comparsa del c.a. risale a un secolo fa e in questi 100 anni la sua composizione è mutata rispetto alla sua versione iniziale e, nel contempo, la modalità di impiego. Al principio non vi era un riferimento a norma che disciplinassero le costruzioni in conglomerato cementizio armato; vi erano, tutt’al più, dei brevetti industriali come quello dei solai prefabbricati Saap, il primo componente edilizio ad essere oggetto di prefabbricazione. Non vi erano ai primordi regole costruttive e tanto meno disposizioni normative, solo per i prefabbricati vi erano indicazioni d’uso della casa produttrice. La scarsa conoscenza della tecnica del c.a. delle origini rende difficile, va detto, l’effettuazione di verifiche di resistenza al sisma dei fabbricati d’epoca. Il cemento armato comincia nel Secondo Dopoguerra a farla da padrona in città anche se il suo impiego non coincide con una trasformazione dei quadri visivi urbani. Per lungo tempo seppure l’ossatura è in cemento armato l’aspetto dei corpi di fabbrica rimane sostanzialmente identico a quelli precedenti che erano in muratura. In effetti, se vi è stata una rivoluzione in campo tecnologico non ve n’è stata un altrettanto decisa relativa alla composizione architettonica.

18 - la viabilita nel centro storico

Non c’è una regola unica, valida per tutti i tratti della rete viaria, che deve essere rispettata dai tracciati stradali che innervano il centro storico. La regola non è né unica né chiara, si pensi alle due strade che corrono nella fascia bassa dell’agglomerato medioevale, se devono essere intese quali assi di penetrazione al nucleo abitativo partendo l’una da porta S. Antonio Abate e l’altra da porta S. Paolo, oppure come una direttrice di percorrenza unitaria, l’insieme via S. Antonio Abate e via Ziccardi che solca il borgo medioevale da parte a parte. Peraltro tale solco ricade nella sezione più estesa del borgo. Congiungendo i due capi opposti, le porte anzidette, questa arteria lunghissima poiché somma di due arterie ordinarie può essere considerata coincidente con una traiettoria di attraversamento.

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Un differente tipo di ambiguità connota l’asta, asta perché dritta, che parte dalla terza delle porte urbiche principali, le altre tre possono essere considerate minori anche perché il passo, la sezione, è più stretto. Questa porta è, era, detta porta Maggiore, una denominazione che denota una supremazia sulle altre legata al fatto di essere baricentrica rispetto all’insieme delle porte, primarie e secondarie, cioè all’essere centrale e non periferica come sono in qualche modo porta S. Antonio Abate e porta S. Paolo. L’asse cui essa è collegata, a differenza delle vie S. Antonio A. e Ziccardi non si arresta quando raggiunge la porta bensì prosegue fuori dalle mura cambiando semplicemente nome, da via Cannavina diventa via Ferrari in quanto quest’ultima è allineata ad essa. Le vie S. Antonio A. e Ziccardi si limitano a fare capolino al di fuori della cerchia muraria dove si sono nel tempo affermati intorno alle due chiese di S . Antonio Abate da un lato e di S. Paolo dal lato contrapposto, dei sobborghi, mentre via Cannavina, significativamente chiamata in precedenza via Borgo, o meglio la linea ideale che segue, invece è partecipe del borgo, non sobborgo, extramurario.

Via Cannavina è un trait d’union tra la vecchia e la nuova città, funziona in ambedue i “sensi di marcia”: in una direzione è di penetrazione al centro storico, per rimanere ai concetti di penetrazione e di attraversamento già messi in campo, in quella contraria di penetrazione nell’insediamento sorto fuori le mura dove si svolgevano le attività artigianali e commerciali. Se le strade le consideriamo oltre che superfici lineari, perciò nelle due dimensioni canoniche di larghezza e lunghezza, anche nella terza dimensione, quella dell’altezza, l’altezza dei corpi di fabbrica al contorno, ne abbiamo una visione volumetrica. I prospetti dei fabbricati che lo fiancheggiano e pure quelli che lo fronteggiano sono, è esperienza comune, parti integranti del percorso viario. È particolare il caso di via Cannavina con la chiesa di S. Leonardo che costituisce il fondale della vista che si apre lungo tale tracciato; è interessante notare che a Campobasso ci sono solo altri due casi di percorrenze che hanno come sfondo un fabbricato, in una è il Carcere, nell’altra la stazione ferroviaria, traguardi ottici di rilievo. Si parla per questa strada di visione prospettica, centrata su un fuoco del campo visivo e ciò la differenzia, e di molto, da quelle ramificazioni della maglia viaria del centro storico che si inerpicano sui “monti” come si dice qui riferendosi alla Collina Monforte nelle quali poiché si tratta di percorrenze molto segmentate i punti di vista cambiano di continuo, ad ogni svolta dell’ascensione.

La prospettiva nasce nel Rinascimento, l’età in cui si ha l’assestamento dell’immagine della parte inferiore della Campobasso storica. In precedenza, cioè nel Medioevo si prediligevano i frequenti mutamenti delle vedute. Chi si muove all’interno della struttura urbanistica antica del capoluogo regionale è soggetto se non proprio a veri choc e stimoli percettivi divergenti spostandosi dal basso verso l’alto del colle; giù ha una lettura prospettica dei luoghi, su colpi d’occhio sono molteplici, mai gli stessi. In tale divaricazione delle modalità di osservazione dell’ambiente urbano sta un’ulteriore ambiguità, no, non ci siamo dimenticati del compito che ci siamo prefissi all’inizio di scovare l’ambiguo insito nella viabilità campobassana di epoca remota. Non è esclusivamente via Cannavina ad essere conformata secondo le leggi della prospettiva perché anche nelle vie Ziccardi e S. Antonio A., proprio come prescrivono gli urbanisti rinascimentali, guardandole d’infilata si riconosce l’esistenza di un “punto di fuga” seppure mobile, cioè che si muove durante il cammino. Gli edifici che vi prospettano hanno il medesimo numero di piani, a sinistra e a destra, la cortina edilizia, salvo pochi episodi tra i quali si segnala il cosiddetto palazzo della Duchessa, è uniforme, riducibile quindi ad una sagoma il cui contorno è il profilo della schiera edificata, per cui può essere abbracciata con uno sguardo d’insieme e nell’ottica, con un gioco di parole, dell’Ottica riconducibile ad un oggetto definito. Una persona riesce così a cogliere con immediatezza il contesto in cui si sta muovendo, le “figure” in cui si compone/scompone il campo del visibile gli consentono di avere sotto mano ogni cosa, quasi sono messe a sua disposizione. L’uomo, in definitiva, controlla il mondo che lo circonda attraverso la vista in modo istantaneo, lo misura, più prospettico di così non si può.

19 - Il traffico urbano

La risoluzione del problema del traffico urbano non può essere affidata ad una sola ricetta. Quella della pista ciclabile ricavata all’interno del sedime stradale è una di queste ricette, un’altra è quella del potenziamento del trasporto pubblico dedicando ad esso una porzione della carreggiata viaria. A meno che non si tratti di strade con plurime corsie, superiori almeno a due, non è possibile far convivere nella sua sezione trasversale la pista ciclabile e la fascia stradale riservata agli autobus cittadini. Mobilità individuale versus mobilità collettiva. È vero, comunque, che la scelta tra le due opzioni non è irrevocabile in quanto più spesso, succede anche alla rete viaria campobassana, la pista ciclabile è realizzata senza opere, quindi ha il carattere di temporaneità. I cordoli di delimitazione sul tratto via Trivisonno-via Mons. Bologna, che è quello con più intenso flusso di traffico costituendo l’ingresso in città, sono manufatti amovibili.

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caratterizza per essere una superficie rialzata, non al livello del piano di scorrimento delle macchine a differenza dello spazio destinato alla circolazione delle bici e dei mezzi di trasporto pubblici. Esso è un’autentica infrastruttura, non una semplice striscia disegnata a terra che delimita una zona di forma lineare e, peraltro, è un artefatto costoso per cui la decisione della sua realizzazione è irreversibile. Il suo allargamento consentirebbe il passeggio. Rimanendo sempre ai pedoni si rileva che, invece, non è una cosa altrettanto stabile la pedonalizzazione la quale ha riguardato l’area centrale della città, ma per fortuna non sembra vi sia il pericolo di una sua revoca.

È da sottolineare che la pista ciclabile in corso di approntamento è destinata agli spostamenti intracittadini per servizi non per diletto. L’elevato numero di incroci, infatti, ne frammenta la percorrenza per cui non è idonea per passeggiate in bici; ben altra cosa, per intenderci, dall’idea di pista ciclabile cui eravamo abituati che si invera nella ciclabile che sta lungo la direttrice di collegamento tra il capoluogo regionale e Ferrazzano la quale è, invece, continua oltre che in sede propria. Un percorso urbano completo dovrebbe, in definitiva, comprendere oltre che lo spazio per le auto la corsia per i bus, la ciclabile e il marciapiede. Quest’ultimo si

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Si è pensato di ricorrere alla costruzione di importanti attrezzature per migliorare la circolazione cittadina, qualcuna ancora non completata, l’anello delle tangenziali, qualcuna ancora non in funzione, le ulteriori 2 soste della “metropolitana leggera”, qualcuna ancora sottoutilizzata, i parcheggi di v. Manzoni e v. Breccelle. Sono interventi “pesanti” che si contrappongono ad interventi “leggeri” come è la pista ciclabile la quale ha sicuramente il pregio di non produrre alcun impatto ambientale a differenza degli altri che rispondono alla logica del cemento, ci si riferisce alle tangenziali e ai parcheggi. Si è finora trattato il tema del traffico cittadino in termini generali nel senso che ci si è interessati della generalità della città mentre ora ci occuperemo di una sua porzione particolare e la contraddizione in questo che stiamo per fare è che in tale porzione non vi è traffico. Essa è il centro storico le cui strade, salvo l’asse via Ziccardi-via S. Antonio Abate, vie unite dalla piazza S. Leonardo, e la rampa viaria denominata salita S. Paolo, non consentono proprio il passaggio delle auto essendo gradonate. Nell’epoca che stiamo vivendo della motorizzazione di massa ciò potrebbe apparire come un problema ed è, invece, a ben vedere un’opportunità. Un’opportunità di socializzazione altrove impedita dalla pervicace presenza delle automobili, in sosta o in movimento. I percorsi stradali naturalmente pedonalizzati per via dei gradini sono il luogo ideale per il tempo libero dei bambini, meglio che le palestre o i giardinetti pubblici i quali sono spazi specializzati non “generalisti” che si frequentano specie le prime in gruppi per lo più di composizione omogenea. Invece nella strada si fanno incontri casuali con i coetanei, il gironzolone equivale a esplorare la città e a conoscere persone di pari età nuove. Gli stimoli che il ragazzo riceve nel praticare le vie del quartiere di residenza sono fondamentali per la formazione della sua personalità. Il potersi spostare a piacimento senza l’assillo del traffico fa provare il gusto della libertà anch’esso essenziale nel processo educativo.

Normalmente non è una mobilità fine a sé stessa perché si associa al giocare, anzi le due attività, giocare e muoversi, sono la medesima cosa e il gioco è qualcosa di estremamente serio che è di ausilio alla crescita personale. Da tenere in conto che si tratta di un ambiente sicuro non solo per l’assenza delle macchine, ma anche perché è vicino casa per quanti risiedono nel centro storico, la strada è quasi un prolungamento dell’alloggio qui; non c’è bisogno per i ragazzi di raggiungere apposite attrezzature, all’aperto o al chiuso che siano, ambiti dedicata alla ricreazione posti a distanza. Le famiglie hanno costantemente i figli sott’occhio. In definitiva la viabilità ha funzioni sociali e si può dire che l’ambiente fisico del nucleo antico con le percorrenze articolate che innervano l’edificato, con gli stretti vicoli, le piazzette, ecc. si rivela in grado di influenzare il comportamento degli uomini. È una mera curiosità, nel centro storico vi sono anche collegamenti sotterranei come quello che congiunge, dal di sotto, la via Orefici alla piazza S. Leonardo. Ci si infila, è la descrizione del percorso, nel sottosuolo scendendo una breve scalinata cui si accede con ingresso su via Orefici da un locale di servizio al pianterreno e si riemerge salendo una breve scalinata in piazza S. Leonardo. Il camminamento ha il piano di calpestio uniforme e non è una galleria come ci sarebbe da attendere per una percorrenza interrata bensì si sviluppa attraverso ampie e alte grotte. Si tratta di proprietà privata.

20 - Il social housing e il centro storico di Campobasso
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Il centro storico ha le potenzialità per diventare la zona più moderna di Campobasso nel campo dell’offerta abitativa. Occorre, va premesso, uno spirito rivoluzionario da parte dei soggetti pubblici e privati tanto è innovativa la trasformazione richiesta del patrimonio edilizio storico il quale si presta ad ospitare iniziative di social housing. L’edilizia sociale, è una precisazione, ha quali fruitori non solo le persone con reddito basso, mettiamo gli abitanti attuali del cuore antico del capoluogo regionale, ma la generalità dei ceti sociali. Di precisazione in precisazione, si rassicura che simile operazione non vuole favorire la gentrification.

La motivazione principale di quanto si propone oltre che quella di rivitalizzazione dell’abitato antico è quella di garantire soluzioni residenziali diversificate all’interno dell’insediamento urbano. Infatti la domanda alloggiativa si articola oggi in una gamma estremamente variegata di bisogni. La disponibilità attuale di alloggi è, al contrario, assai standardizzata, le tipologie edilizie presenti in città sono abbastanza uniformi. L’utilizzo delle architetture del centro storico può essere utile per avere maggiore diversità nel sistema insediativo. Questo ambito urbanistico, perciò, impiegando uno slogan abusato, può trasformarsi da problema in risorsa essendo potenzialmente capace di fornire un contributo importante all’ampliamento delle opportunità urbane. Si ritiene che si debba privilegiare, senza escludere, comunque, altri modi di riutilizzo degli immobili del passato, la formula dell’housing sociale per quella tendenza alla socialità che si coglie nella struttura fisica del nostro borgo medievale vista la presenza dei tanti slarghi e piccole corti che costituiscono quasi un’amplificazione delle case che si affacciano su questi vuoti dove si trascende dalla divisione tra pubblico e privato. Ciò consente di riformare il “vicinato” il quale non lo si ritrova nei quartieri di epoca recente. Il s.h. appare adatto alla particolare conformazione dell’aggregato edilizio della cosiddetta città vecchia e nel contempo,

in linea con la visione attuale centrata sulla flessibilità della superficie della residenza e diversificazione del taglio degli alloggi. Nell’insediamento intramurario è raro trovare unità immobiliari a sé stanti, stabili ben definiti, perché le costruzioni sono, in genere, frutto di aggregazione/fusione di volumi, oggetto di sopraelevazione o di parziali ampliamenti e ciò consente di poter immaginare, ad esempio, la predisposizione qui e là di vani comuni a più famiglie per lo svago, per i servizi, ecc. di suddivisioni in unità immobiliari minime soggette a seconda dei bisogni ad accrescimenti e tanto altro ancora. Niente di più distante dal complesso per appartamenti tradizionale. Tale configurazione dell’edificato, in definitiva, si presta all’applicazione degli schemi distributivi del social housing i quali non sono rigidi, non rispondono a tipi architettonici codificati, bensì sono in grado di adattarsi ai più variegati organismi costruttivi. Finora abbiamo parlato dei “rimedi” per frenare il declino del centro storico, quali sono i passi in avanti da compiere, ora facendo un passo indietro parliamo di alcune cause di questo declino. Iniziamo da una data, il 1806, in cui se Campobasso avanza compiendo non un passo bensì un balzo nella graduatoria “di merito” degli insediamenti urbani molisani poiché diventa capoluogo della neonata Provincia di Molise nello stesso tempo il suo nucleo antico subisce un arretramento.

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Esso è dovuto allo svuotamento delle funzioni direzionali che troveranno nuova sede nella parte moderna dell’abitato. È da dire, ad ogni modo, che l’apparato pubblico, non essendo ancora la città assurta al rango di capoluogo provinciale, presente all’epoca in cui Campobasso coincideva con il borgo medievale era di dimensioni minime mentre in seguito, specie dopo l’Unità d’Italia, ad essa in quanto “capitale” del Molise vengono assegnati compiti amministrativi rilevanti dalla Prefettura all’Intendenza di Finanza al Genio Civile e così via.

Nell’agglomerato antico non fu possibile reperire immobili, da un lato, di prestigio, dall’altro, di superfici consistenti degni e capaci di ospitare gli uffici conseguenti al ruolo di sede del governo provinciale; ciò perché la designazione di Campobasso come vertice politico della Provincia rappresentò quasi un “invenzione” non essendo una realtà cittadina di grandi tradizioni e, quindi, ricca di residenze signorili di rilievo al suo interno dove allocare le varie amministrazioni post-unitarie. Si dovettero cercarne le sedi all’esterno occupando i vecchi conventi, una volta aboliti gli ordini monastici e incamerato l’asse ecclesiastico, che numerosi circondavano l’insediamento abitativo. Di qui la scarsa rilevanza dell’aggregato storico che spinge gli abitanti originari e i forestieri, ufficiali, magistrati, funzionari che lavoravano nelle strutture amministrative e giudiziarie da poco create, a trovare casa nell’appena nato Borgo Murattiano. Traslocando gli impiegati progressivamente il borgo preesistente si svuota. Ad allontanarsi inizialmente è stato il ceto sociale più abbiente e in seguito anche le classi subalterne per le quali fuggire dal centro storico per trasferirsi in residenze aggiornate nei quartieri di edilizia economica e popolare pur se periferici spesso ha significato fuggire da una situazione di subalternità. Da questo momento, davvero epocale, in poi il problema del centro storico non è stato più sentito solo come un problema di condizioni abitative che pur sussiste per coloro che ancora vivono qui e non sono pochi bensì come una faccenda eminentemente culturale legata al bisogno simbolico di identità cittadina della comunità campobassana. Peraltro Campobasso non si può permettere di essere anonima essendo il capoluogo regionale perché tale anonimato si riverserebbe automaticamente a cascata sull’intera regione avvalorando la diceria che il Molise non esiste o perlomeno che vive in anonimato.

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Sarebbe chiara la distinzione tra la parte recente e quella remota della nostra cittadina se non fosse per quella strada, via Cannavina, che costituisce la via di accesso privilegiato al centro storico la quale per le sue caratteristiche formali, la linearità e la lunghezza assomiglia ad arterie dell’espansione extramuraria, prendi via Ferrari, via Isernia e via Larino. Non è solo il percorso stradale della porzione centrale del borgo medioevale, la predetta via Cannavina, ma anche, seppure di sezione trasversale più stretta, in parte le vie S. Antonio Abate e Ziccardi a farci confondere un po’, a portarci a chiedere se si è dentro o fuori l’abitato antico.

La leggera curvatura dell’asse di queste ultime la quale certo è dovuta al fatto che seguono il tracciato della cerchia muraria, la cerchia non è un cerchio qui, è un indizio sufficiente a farci ritenere che siamo all’interno dell’agglomerato risalente all’Età di Mezzo perché tale direttrice di percorrenza è replicata pari pari all’esterno, il semianello formato dalle vie Marconi, Orefici, del Castello. È un po’ poco le sei porte che si aprono verso il nucleo originario di Campobasso a garantire la continuità tra le due città, la moderna e la vecchia, a permetterci di credere che si tratti di una realtà insediativa unitaria nonostante alcuni sforzi fatti per omogeneizzarle. Tra questi il più rilevante è stato quello, forse sollecitato dal governo urbano che dovette mettere a disposizione di coloro che ne erano interessati il sedime o i brandelli sopravvissuti della cinta di mura, di trasformazione della cortina fortificata in una cortina di fabbricati per civile abitazione.

Si abbatterono presumibilmente i tratti superstiti della murazione urbica per costruire ex-novo sulla sua fondazione o li si inglobarono nelle nuove costruzioni perché all’epoca l’immagine dei ruderi o delle lacune era considerata una cosa incompatibile con il “decoro” cittadino specie in una zona che sarebbe diventata centralissima. Permangono tracce di fortificazioni che collegano il castello con porta S. Antonio Abate fino al II Dopoguerra quando anch’esse vennero cancellate, una “bonifica” del terreno. Nessuno ha mai pensato, comunque, ad effettuare un’opera di sventramento, una classica azione messa in campo in molti centri storici, eliminando segmenti ormai cadenti della struttura di difesa urbica per creare ulteriori varchi di ingresso al centro storico nostrano. Essa, in effetti, sarebbe stata una operazione assai violenta in quanto si trattava di spazzare via oltre che rimasugli di muro la memoria stessa del sistema difensivo o, perlomeno, della sua logica complessiva che è complicata per cui va letto nella sua integrità.

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Gli unici elementi del borgo murato che si sono conservati sono le torri diventate il simbolo di Campobasso e le porti sulle maggiori delle quali, cioè porta S. Antonio Abate e porta S. Paolo vi sono gli stemmi dei titolari del feudo, anche questo ne testimonia la primazia nel senso che non tutte le porte sono uguali (per importanza). Il centro storico si distingue, invece, nettamente dal resto della città, non si prova alcuna incertezza nel riconoscimento, allorché si lascia la sua fascia bassa in cui occupa una striscia di terreno in piano, quella dove si sviluppa la sequenza di via S. Antonio Abate e via Ziccardi e ci si avvia verso il monte. È una morfologia di territorio acclive che dà vita ad un insediamento di versante, il nucleo originario del nucleo originario del capoluogo regionale, completamente differente da quella dei luoghi prescelti nella successiva espansione urbana, di norma pianeggianti o solo lievemente acclivi. Non ci si può sbagliare, quando l’edificato è in pendenza allora siamo di fronte a fasi insediative antichissime (risalenti all’alto medioevo mentre le stracitate via S. Antonio A. e Ziccardi sono del basso medioevo).

È da evidenziare che le entità urbane del passato, la superficie su cui sorgono, coincidevano

integralmente con un fatto morfologico distinto sia esso un promontorio, Isernia, sia esso un crinale, Frosolone, sia esso un fianco di altura, appunto Campobasso; non è dato occupare un territorio in cui vi siano aree con caratteristiche morfologiche dissimili, ciò avverrà più tardi, ci si riferisce a Campobasso, con il superamento della barriera rappresentata dalla cintura muraria la quale si frapponeva alla crescita. Lo stesso discorso vale per i quartieri in cui essa si articola: il Quartiere CEP sta su un piano inclinato, il Quartiere Murattiano in un ambito di pianura, il quartiere per gli stabilimenti produttivi, Colle delle Api, ha una conformazione del suolo tabulare e così via. Il centro storico campobassano costituisce una variazione su tema in quanto si discosta dal modello-tipo di borgo su pendio affermatosi in area molisana; l’edificazione a Boiano, Venafro e Roccamandolfi per fare tre esempi non raggiunge la sommità dell’emergenza montuosa su cui poggiano anche perché la fiancata della stessa è molto lunga mentre nella “capitale” del Molise arriva, o meglio arrivava prima che il Conte Cola distruggesse le case prossime al suo maniero, fin in cima ai “monti” come nella volgata popolare si chiama il Montebello.

C’è una morale: esiste una dimensione ottimale per ciascun aggregato abitativo, sarebbe una forzatura non tenerne conto, si rischierebbe di snaturarlo, è meglio tenere distinti i settori urbani, non vale la pena, addirittura si può compromettere la loro organicità, cercare di integrarli fra loro, metti realizzando quei passaggi viari cui si è accennato sopra tra il centro storico e il circuito viario che lo circonda, il concatenamento delle vie Marconi, Orefici e del Castello.

22 - La Biblioteca Albino un orgoglio per Campobasso

L'affermazione di Campobasso nel panorama insediativo molisano non è il frutto di una crescita del ruolo politico di questo centro capace di rendere subalterni ad esso gli altri comuni come avvenne con il Conte Cola che arrivò a costituire un ampio dominio comprendente numerosi feudi avente quale polo la nostra città. La primazia di Campobasso nella nostra regione non è dipesa neanche dalla sua dimensione demografica, Agnone nel XIX secolo era arrivata a superarla per numero di abitanti e, d’altro canto, non è la quantità di gente che vi abita a fare attribuire il rango di città a quel posto, vedi i popolosi borghi contadini della Puglia di un tempo. Piuttosto si diventa città in età moderna se si è capoluogo delle neonate province ma per essere individuata quale “capitale” provinciale occorre che si sia un agglomerato almeno di medie dimensioni, condizione quest’ultima quindi necessaria ma non sufficiente.

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A latere è da notare che i centri sede dell’amministrazione provinciale vengono serviti dalle anch’esse neonate ferrovie. Non certo dipende dalla volontà di quel comune il ricevere l’investitura a capoluogo di provincia, è decisione dell’autorità statale, ovvero di un’entità superiore. La “promozione” a capoluogo di provincia si associa alla dotazione alla città di tutta una serie di attrezzature pubbliche (caserma dei carabinieri, palazzo delle poste, scuole superiori, delegazione della Banca d’Italia, Ospedale ecc.) e private (uffici di varie banche, consorzio agrario, ecc.). Tra le opere di interesse collettivo non citate sopra perché ad esse è riservata nel discorso che intendiamo fare un’attenzione particolare si segnalano il museo, la biblioteca e il teatro che sono autentici templi della cultura oltre che, i primi due, deposito della memoria della comunità molisana insieme all’archivio di stato. Vi è anche un’altra realtà del settore culturale che è il liceo classico.

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Gran parte degli istituti elencati compresi quelli propriamente istituzionali, dal municipio alla prefettura sono ospitati in immobili prestigiosi. Edifici di grande valore pure economico per cui è stato un investimento davvero cospicuo quello effettuato dallo Stato il quale ha puntato assai su Campobasso non potendosi immaginare una qualsiasi ipotesi di smobilitizzazione successiva delle risorse che sono state dedicate a questa città, un futuro declassamento. Un inciso è che non vi è un legame tra presenza della cattedra vescovile e designazione a capoluogo provinciale, Campobasso all’epoca non era sede di diocesi; il vescovo solitamente sta in città, ma non è una regola assoluta, può trovarsi l’episcopio anche in paesi piccolissimi, vedi Limosano e Guardialfiera. È da notare che antecedentemente all’Unità d’Italia l’istruzione ricadeva nella sfera ecclesiastica per cui l’importanza del seminario diocesano, Campobasso ne era privo. 

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La Repubblica che ha sostituito la Monarchia non si impegna nella costruzione di architetture rappresentative essendo venuta meno l’esigenza dell’uniformazione degli stili in precedenza legata all’esigenza dell’unificazione nazionale anche per gli aspetti formali. L’eccezione è costituita dall’Università, la politica universitaria rimane centralizzata mentre il resto, in ossequio alla democrazia, è affidato ai poteri locali. Non è da poco, comunque, la nascita dell’ateneo molisano nonché del conservatorio perché è sulla cultura che si deve fondare il futuro di Campobasso. Per legittimare la sua funzione di comune capoluogo, status “graziosamente” concesso dal sovrano, è proprio sul settore culturale che occorre fare leva, vi sono valide premesse, sull’economia della conoscenza e, pertanto, mettere in campo molteplici iniziative in molteplici campi, editoria, musica, cinematografia, arti figurative e così via. Ha un bel da fare l’assessore municipale al ramo… Le cose da fare sono molte e tra queste occupa un posto di primaria importanza la riapertura della Biblioteca Albino. Le ragioni sono tante a cominciare da quella che essa con la sua raccolta di giornali d’epoca e la collezione di libri di

cultura molisana costituisce un po' l’archivio della memoria storica regionale. Nel reclamare che il materiale librario in essa contenuto debba tornare nella sua interezza a disposizione dei cittadini della regione si deve fare richiesta pure che esso non cambi sede e su questo punto ora ci soffermeremo partendo da considerazioni sull’ubicazione dell’istituzione bibliotecaria. Non si trattava il sito in cui è stata collocata di un’area di pregio posto com’era e com’è nel retro del palazzo di proprietà della Provincia un tempo ospitante il Laboratorio di Igiene e Profilassi, del resto nel centro città non c’erano e non ci sono molte superfici libere disponibili. La biblioteca si trova a non possedere una facciata né su via Garibaldi dove prospetta invece l’immobile che oggi contiene uffici sanitari il quale la copre alla visione da questa arteria né sul fronte opposto cioè su via D’Amato da cui è separata dall’auditorium ad essa annesso. L’auditorium la tiene a distanza da questa strada e nel contempo non cerca l’allineamento con il predetto percorso viario. Il rifuggire dal contatto con l’intorno urbanistico è una precisa scelta, una scelta dettata dalla volontà di assicurare la tranquillità ai fruitori della sala studio. Il silenzio è una condizione sine qua non per la consultazione dei libri.

È di particolare interesse la soluzione architettonica adottata di consentire a coloro che frequentano la sala di lettura di poter traguardare con la vista il tetto-giardino dell’auditorium e ciò, la contemplazione del verde favorisce la concentrazione dei lettori. Il verde, si sa, rilassa. È un effetto difficile da poter ritrovare in altri edifici, bisogna nascerci biblioteca. La mancanza di uno o due prospetti, uno per strada, di rappresentanza non rende meno riconoscibile il fabbricato. Si tratta di un’architettura “organica” modellata assecondando la morfologia del luogo ben distinguibile dall’edificato ordinario che la circonda. Se non fosse per tale questione di forma essa era, non è, notata, comunque, da tutti per la forte carica semantica che la segna, un manufatto identificato come “casa” della cultura. È da sottolineare che la Albino è, era?, insieme a quella dell’Università l’unica biblioteca in sede propria del Molise. Vi sono, di certo, diverse realtà bibliotecarie nella nostra regione le quali, però, ad eccezione di queste due appena citate sono accolte in immobili noti per altri scopi e che, peraltro, non hanno quale destinazione esclusiva quella di biblioteca. Va pure rilevato, visto che si è fatto cenno alla biblioteca universitaria, che la Albino, qualora si decidesse di dismettere lo stabile originario non dovrebbe essere trasferita in periferia come quella dell’Università in quanto a servizio della cittadinanza intera e non di una sola componente, quella studentesca, gli studenti universitari.

23 - La vocazione commerciale del borgo antico
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Che strana sorte ha subito il centro storico di Campobasso, nell’arco di due secoli, cioè dalla creazione del Borgo Murattiano ad oggi, è passato dall’essere un’entità urbana compiuta in sé stessa a una porzione di città; sia come superficie occupata sia come abitanti l’agglomerato antico il cui perimetro un tempo coincidente con l’interezza dell’insediamento rappresenta ormai una parte minoritaria della nostra cittadina. Per certi aspetti, ovvero per la sua marginalità economica e sociale, il nucleo originale può essere definito una periferia non lo è, però, se intendiamo con questa parola anche la lontananza dalla zona centrale dell’abitato perché il centro storico sta fianco a fianco all’attuale centro del capoluogo regionale. Non si capisce perché non possa essere integrato con questo, costituirne una estensione, almeno la fascia bassa del borgo medievale.

Si potrebbe aprire un Grancaffè o una sala da tè nella centralissima, perlomeno per il vecchio agglomerato, piazza S. Leonardo anche vista la presenza di sufficiente spazio per la collocazione di tavolini all’aperto (all’aperto si è detto, non in un dehor!), in numero limitato beninteso. Un bar prestigioso tradizionalmente caratterizza i centro-città. La via dello shopping che ora è rappresentata dalla sequenza di negozi che dal Corso passando da piazza Prefettura arriva alla via Cannavina potrebbe allungarsi ulteriormente proseguendo lungo le due direttrici viarie che si imboccano da piazza S. Leonardo l’una che porta perso porta, non è una ripetizione,

S. Antonio Abate e l’altra che va in direzione di porta S. Paolo. Queste due strade vanno in verso opposto, ognuna verso, anche queste non è una ripetizione, una delle due porte nominate innanzi anche se nell’insieme possono essere considerate un unico percorso viario inframezzato proprio nel mezzo da piazza S. Leonardo da cui si biforca. Che si prestino tali assi stradali a diventare strade commerciali è subito dimostrato: la loro pendenza, sensibilmente più accentuata, ma comunque, non incompatibile con la deambulazione da diporto, in via S. Antonio A., davvero minima per un consistente pezzo di via Ziccardi, permette il passeggio e, dunque, la passeggiata per gli acquisti.

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Si verrebbe a configurare un’intera area che comprende il Borgo Murattiano e la striscia del centro storico che declina verso il piano da trasformare in un polo per il commercio capace di fare concorrenza ai centri commerciali ubicati in ambito periferico. Va da sé debba essere una zona pedonalizzata, cosa che in effetti è già essendo limitato il transito con le auto solo ai residenti. Si tratterebbe, quelli ricavati negli stabili che contornano tale antico nastro viario, di piccoli negozi, non certo, data la dimensione dei locali che dovrebbero ospitarli contenuta, non di grandi magazzini di vendita. Lo “sfruttamento” quali esercizi pubblici dei vani che prospettano su questo ipotetico centro commerciale lineare con camminamenti all’aria aperta, favorisce, da un lato, la rivitalizzazione dell’aggregato storico e, dall’altro lato, il riutilizzo di superfici degli immobili poste a livello stradale oggi vuote

attribuendo loro una nuova destinazione d’uso con rivendite dei vestiti, borse, oggettistica, ecc. e magari anche esercizi di vicinato per la popolazione del posto che si spera aumenterà, tipo alimentari, macelleria, lavanderia che oggigiorno sono scomparsi. Per la presenza nel vecchio borgo di persone immigrate che vi si sono stabilite è prevedibile la comparsa di negozietti “etnici” e contemporaneamente la nascita o la ripresa, si confà al luogo, di botteghe artigianali in cui è possibile acquistare manufatti made in Molise. In definitiva una specie di gran bazar se non un suq. È da accettare il rischio che vi si installino fast food il quale non è in linea con l’elevato valore culturale di questo settore urbano, mentre sono i benvenuti gli street food. Ciò per quanto riguarda gli ambienti terranei mentre quelli sotterranei di cui Campobasso è dotatissima da tempo sono stati trasformati in ristoranti o pub i quali animano la nostra vita notturna.

Rimanendo alla quota di “campagna” si deve dire che il problema del reimpiego dei volumi, una volta terminato il loro utilizzo per stalla, rimessa, ecc. è comune a tutti i centri storici della regione. Partendo dalla striscia di contatto tra l’insediamento antico e quello moderno di cui si è finora discusso arriviamo al punto nodale di questo intervento che è la congiunzione/disgiunzione tra città vecchia e città nuova che è stato sempre un tema caldo nella storia urbana. È emblematica la vicenda che ha riguardato la porta Maggiore, quella posta al termine/inizio di via Cannavina la quale, chiusa, serviva a separare l’insediamento medievale dall’edificato extramurario, una separazione netta. La gente del sobborgo si sentiva esclusa dalla vita del borgo, la faccenda dei Trinitari e Crociati. Per favorire le relazioni tra coloro che risiedevano dentro le mura e quanti alloggiavano all’esterno la porta principale ovvero Maggiore venne demolita. Attualmente la situazione sembra essersi capovolta, è come se il fantasma della porta scomparsa aleggiasse ancora e che, però, adesso la sua chiusura servisse a impedire a chi vive all’interno del centro storico di usufruire delle opportunità che offre la città moderna. Ad essere emarginati appaiono al giorno d’oggi i novelli Crociati, la storia è andata a favore dei Trinitari, altro che riappacificazione, fra Girolamo da Sorbo rimarrebbe costernato. È nelle cose, comunque, la fusione tra il passato e il contemporaneo, il futuro nessuno lo sa. La porta Maggiore, il suo ectoplasma, mette in collegamento diretto, dritto si potrebbe dire perché via Cannavina è dritta, la piazza maggiore del nuovo centro con quella del vecchio; tutto è a portata se non di mano di occhio, le cose dell’antichità e della modernità stabiliscono fra loro una relazione naturale.

24 - La pista ciclabile di Ferrazzano

È tempo per uscire dalla città con i suoi ingorghi, il rumore dei motori, la sequenza continua delle carrozzerie metalliche in movimento e recuperare un po’ di tranquillità e cosa è meglio per tale scopo che incamminarci lungo la pista ciclabile per Ferrazzano. Innanzitutto è da dire che essa non è in collegamento con quelle che si stanno predisponendo nell’area urbana, non è inclusa nel sistema dei percorsi ciclabili. Ha caratteristiche diverse dal resto delle percorrenze ciclabili a cominciare dal fatto che essa è in sede propria, il concetto di ciclabilità è differente poiché non è ricavata all’interno della carreggiata stradale con la quale non è in piano bensì è rialzata sviluppandosi sopra una sorta di marciapiede.

A proposito di quest’ultimo che è una infrastruttura tipicamente legata alle percorrenze pedonali è da evidenziare che pur se definito pista ciclabile il collegamento con Ferrazzano di cui si parla è utilizzato in realtà soltanto da persone a piedi. Che sia un luogo privilegiato per le camminate ce lo dice la presenza del marciapiede mentre che sia destinato al passeggio lo rivela l’essere fiancheggiato da alberi i quali, piante dalle foglie larghe come sono i platani, garantiscono l’ombreggiatura rimandando all’immagine del viale. L’accoppiata marciapiede, peraltro di ampiezze consistente, alberatura la ritroviamo nel corso principale del capoluogo regionale, il Corso per antonomasia.

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Li distinguono, comunque, varie cose. La prima è di certo la lunghezza che per la pista ciclabile verso Ferrazzano induce a parlare più che di passeggiata di escursione ed è idonea, pure per lo jogging. La seconda è che i viali urbani, quasi per definizione, sono rettilinei mentre la pista in questione è curvilinea e da qui ne discende un cambio di visuali durante il suo svolgimento con effetti percettivi stimolanti. La terza è che i viali per così dire intramoenia sono dotati di marciapiedi su entrambi i lati a differenza della pista extramoenia che lo prevede solamente da un fianco e non per una casualità, tale fianco è quello che volge verso la campagna e quindi il lato da cui si aprono vedute estese; si coglie l’occasione per invocare l’apposizione di un vincolo di rispetto per tali aperture visive vietando l’edificazione per una fascia di una certa profondità come si fa per le strade panoramiche. La quarta differenza

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relativa alla continuità del camminamento che nel Corso risulta estremamente frazionato per via degli incroci con le numerose traverse laterali, rami della scacchiera del Borgo Murattiano la quale ha una maglia molto fitta, in verità con la pedonalizzazione del centro cittadino il problema è ormai superato. La quinta diversità consiste nel fatto che nel Corso non è conveniente, su per giù per ragioni di decoro, effettuare attività motorie che non sia quella della semplice deambulazione, al contrario che nella pista che congiunge con Ferrazzano nata appositamente per andare in bicicletta e, in via succedanea, per il cammino. La predetta pista si presta anche per la corsa, per lo skating e financo per le ciaspolate se nevicasse, in definitiva una specie di corsia di un impianto di atletica. La sesta differenziazione è che nel Corso si fanno, proprio come una piscina, “vasche” così definite

dai campobassani che lo frequentano, cioè si va sopra e sotto, senza magari neanche cambiare marciapiede e, invece, la pista ciclabile rientra in un progetto di creazione di un circuito ad anello, realizzato finora parzialmente, che corre intorno al villaggio di Nuova Comunità. Fino ad adesso abbiamo enumerato ciò che non hanno in comune il viale cittadino e quello, lo definiamo così, rurale, ora vogliamo mostrare quanto li accomuna che è costituito da due caratteristiche. L’una è quella della planarità dei percorsi; è scontato che per il passeggio ci voglia un tracciato pianeggiante, meno per una camminata in ambiente. Per quanto riguarda quest’ultima annotazione si vuole aggiungere che si ritiene che l’anello di cui sopra non si richiuderà mai essendo il tratto mancante in accentuata pendenza.

L’altra è che per raggiungere il punto di inizio, in ambedue i percorsi pedonali, la pista ciclabile e il Corso, della camminata dai quartieri dell’agglomerato urbanistico più distanti occorre prendere la macchina e ciò è una contraddizione in termini, muoversi in auto per muoversi a piedi. Occorre precisare a questo riguardo che se per il Corso il tragitto pedonale può prendere avvio dall’inizio dello stesso o lo si può imboccare in un momento intermedio di questa strada, all’incontro con una di quelle stradine secondarie del Nuovo Borgo progettato dal Musenga, nella pista ciclabile è univocamente determinato, è specifico per i testa-coda. Per il Corso ci sono ai suoi due capi altrettanti monumenti, la statua di G. Pepe e l’Obelisco a definire l’inizio e la fine, nella pista ciclabile manca il segnale di partenza e forse non sarebbe male collocare al termine

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di via Principe di Piemonte, cioè fuori porta, un elemento iconico piuttosto che apporre un mero cartello per enfatizzare lo start della pista. Non si può non menzionare che a Campobasso, almeno nella toponomastica, vi sono più viali (Elena, Mons. Bologna, Principe di Piemonte) e, però, solo lungo la via principale che, poi, è quella centrale, si pratica il passeggio che localmente e significativamente si chiama struscio per la voglia recondita di esibirsi. Il passeggio che si afferma dalle grandi metropoli alle cittadine di provincia nel XIX secolo in cui si guarda e si viene guardati è l’essenza stessa della città, non conta che si svolga nell’area urbana, il Corso, o in quella periurbana, la pista ciclabile in questione.

25 - Nuova Comunità a Ferrazzano e borgo medioevale a Campobasso

Si è, per fortuna solo in parte, abbandonato il vecchio borgo, l’old town, e se ne è costruito un altro, una new town, su un diverso rilievo collinare. Non si può proprio dire a immagine e somiglianza del primo e, però, l’intenzione dei suoi promotori è stata quella di rifare un borgo tradizionale. Stiamo parlando di Nuova Comunità la quale prende ispirazione dagli insediamenti storici con le strade curvilinee, gli edifici aggregati in maniera variegata, l’uso di materiali locali, il mattone, in facciata ritenendo che questi fossero i caratteri salienti di un agglomerato medievale. Sono queste regole adottate tutte presupposizioni su quali fossero le caratteristiche distintive degli aggregati del passato che, però, si rivelano essere semplicemente degli stereotipi con riscontri parziali nella realtà concreta di tali centri.

Si prenda l’ubicazione che non è detto debba ricadere su un colle o, almeno, l’interezza dell’abitato come succede a Nuova Comunità e neanche occorre che i percorsi presentino curve accentuate e per dimostrare queste due affermazioni ci serviamo del caso della zona bassa del nucleo antico di Campobasso. Qui il suolo è in piano contrariamente a quanto ci si aspetta per un’entità urbana risalente all’Età di Mezzo, al modello ideale preso a riferimento nel progetto del quartiere ferrazzanese. Per quanto riguarda la viabilità essa in questo pezzo della vecchia Campobasso è costituita da un lungo asse con una configurazione latamente curviforme, una specie di curvone poco accentuato che segue la curvatura della cinta muraria. C’è, poi, che questa asta, curva e non dritta beninteso, seppure suddivisa in due tronconi, via S. Antonio Abate e via Ziccardi,

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da piazza S. Leonardo è continua, non vi è la suddivisione viaria in plurimi segmenti che si ritrova nell’esperimento insediativo di Ferrazzano pur unificati dal medesimo nome di via Leonardo da Vinci. Questo tracciato forma degli zig-zag i quali ben si addicono alle realtà urbanistiche di collina, ognuno dei quali potrebbe aspirare ad avere una denominazione propria. Il fatto che l’andamento delle percorrenze nella parte bassa della Campobasso antica disegni un arco di cerchio è dovuto sia, ci si riferisce alla metà del percorso, via Sant’Antonio Abate, che collega la porta omonima con piazza S. Leonardo, alla necessità del superamento in maniera agevole del salto di quota tra questi due punti che hanno altimetria diversa, e sia alla circostanza che esso segue il perimetro delle mura urbiche le quali, ai fini della difesa, è bene siano di forma semicircolare. Sarebbe meglio collocare l’osservazione che si sta per fare in coda all’esposizione della tematica dei tragitti stradali senza interrompere la continuità del discorso in corso, ma se si facesse così potrebbe sembrare che la preannunciata osservazione riguardi un aspetto marginale poiché starebbe ai margini del predetto discorso e, invece, riguarda una cosa rilevante.

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La faccenda è che la new town posta al confine tra il capoluogo regionale e Ferrazzano si potrebbe chiamare pure garden city per la presenza al suo interno di giardini a corredo delle residenze e questa è una differenza notevole tra il centro storico e la lottizzazione ferrazzanese. Nell’aggregato abitativo campobassano il verde che è appannaggio esclusivo di alcune abitazioni e, addirittura, è nascosto alla vista della cittadinanza da un muro di recinzione e relegato nella striscia terminale, il termine superiore, dello stesso in prossimità della chiesa di S. Bartolomeo. In definitiva Nuova Comunità ha due riferimenti ideali, due fonti di ispirazione nel disegno di piano, da un lato le unità urbane sorte nel Medioevo e dall’altro lato una unità rurale, il villaggio, è, cioè, un insieme di urbano e rurale. Se per assomigliare alle entità cittadine di un tempo le quali perseguivano l’arroccamento sulle alture ai fini di protezione, Nuova Comunità, lo si è fatto già notare, è su pendio, per evocare i piccoli raggruppamenti edilizi i

quali stanno nell’agro essa è situata in periferia, quasi in campagna. I sobborghi, così si può definire Nuova Comunità, hanno una densità fondiaria minore di quella delle aree centrali; nelle vie S. Antonio Abate e Ziccardi, siamo tornati al focus della nostra trattazione, il rapporto tra superficie libera e quella occupata dai fabbricati è nettamente a favore della seconda e non vi è neanche un metro quadro coperto da vegetazione (l’adiacente piazza dell’Olmo è di nome, ma non di fatto), non è assolutamente possibile in tale riguardo una comparazione con Nuova Comunità. È da sfatare pure la credenza che nell’antichità le case avessero tipologie molto diversificate fra loro in quanto lungo questa linea non rettilinea bensì semianulare costituita dalla sommatoria di via S. Antonio Abate e via Ziccardi i tipi architettonici sono solamente due, o in linea, la stragrande maggioranza, o a corte, per lo più i palazzi signorili come quello detto “della duchessa”. Al contrario a Nuova Comunità nonostante essa abbia come modello gli annucleamenti storici, il campionario delle architetture tipologicamente parlando è assai vario. A contraddistinguere dal

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punto di vista percettivo in maniera forte la porzione dell’impianto storico che ricade nel piano e Nuova Comunità, l’uno, lo ripetiamo, a Campobasso e l’altro a Ferrazzano, è l’allineamento dei fronti edificati lungo le arterie cittadine: nella struttura urbanistica campobassana le facciate sono disposte a formare cortine a fianco alle arterie, nella new town i corpi di fabbrica che affiancano la viabilità urbana hanno i prospetti con orientamento molto diversificato.

26 - Le case improprie
nella campagna campobassana
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Al contrario del centro storico che soffre dell’abbandono, le frange periferiche sono in espansione, la quale in verità da qualche tempo si è rallentata, il confine con la campagna è estremamente mobile. La diffusione delle residenze nell’agro fa da pendant alla dismissione di quelle del centro storico. Una fascia periurbana che cresce si può dire in maniera nascosta anche per interpretazioni favorevoli della normativa urbanistica vigente per le zone agricole. Proprio la dispersione rende meno visibile il fenomeno. Questa continua erosione dello spazio agricolo sta compromettendo l’originale idea che era alla base del progetto di PRG esposta dal prof. Bequinot agli inizi degli anni ’80 quando ricevette l’incarico da parte del Comune: l’impostazione era quella di sfruttare i «cunei» agricoli che penetravano (40 anni fa!) all’interno della città cresciuta in maniera tentacolare quali zone verde seppure destinate alle coltivazioni.

Quella appena descritta è la periferia che possiamo definire “rururbana” perché a metà tra il rurale e l’urbano che si distingue nettamente dalla periferia per così dire ufficiale e cioè quella che comprende i quartieri S. Giovanni de’ Gelsi, Colle dell’Orso, ecc.. I problemi ambientali che causa questa espansione incontrollata dell’urbanizzazione sono di 3 tipi. Il primo è che provoca, è scontato, Consumo di Suolo, il secondo è che obbliga i tanti, diverse migliaia, che vivono in campagna ad usare l’auto per raggiungere il centro-città con conseguente spreco di energia, quella del carburante. Il terzo che si lega al secondo è l’inquinamento prodotto dai gas di scarico delle macchine che si riversano quotidianamente nell’area urbana. A quest’ultimo proposito è da far notare che questa particolare forma di insediamento è inopinatamente fatta di sole case mentre i posti di lavoro stanno in città, chi abita qui non pratica l’agricoltura, e possono essere raggiunti unicamente con i mezzi privati essendo insufficienti quelli pubblici. Si pensi anche alle conseguenze pesanti sul traffico cittadino. La bassa densità

determina anche l’assenza di servizi commerciali e bar; è esattamente il contrario di quanto propugna la formula di città di 15 minuti. L’automobile ha innescato una rivoluzione epocale nel campo dell’urbanistica, prima le attrezzature erano raggiungibili tutte in un quarto d’ora, ogni funzione urbana era accessibile pedonalmente dalla propria abitazione. È da dire, in aggiunta, che porzioni di tale conurbazione dispersa si sviluppano a cavallo tra più territori comunali interessando anche l’insediamento sparso, abusivo o meno, dei comuni contermini (Ferrazzano e Campodipietra in particolare) e ciò renderebbe necessaria la redazione di piani intercomunali che nel Molise sono assenti mancando la legge urbanistica regionale; manca, peraltro, pure il piano territoriale. Puntualizzazione al riguardo è che l’edificazione è avvenuta lungo le strade interpoderali esistenti, non ne sono state realizzate di nuove altrimenti si sarebbe trattato di lottizzazione. La rete viaria che collega i poderi in un certo territorio comunale converge, evidentemente, sul centro urbano cui esso appartiene;

lo strumento urbanistico che dovrà abbracciare più comuni è necessitato a tener conto di tale dipendenza. Fare un piano per gli insediamenti abusivi esteso alle aree dove si è avuta edificazione illegale riguardante il territorio di Campobasso e i lembi delle realtà comunali confinanti dove si è avuto lo stesso fenomeno formanti tali aree un comprensorio unitario sotto questo riguardo è un’operazione davvero complessa. Infatti, si deve tener conto nella stesura di questo piano non solo delle specificità presenti nel perimetro amministrativo di Campobasso, ma pure della diversità delle situazioni sempre in riferimento a questo aspetto, al suo contorno, tante quanti sono i Comuni contermini dove nell’agro vi sono casi di abusivismo  edilizio. L’origine della tendenza a costruire in zona rurale è la medesima, quella di vivere in campagna, non conta se campobassana, ferrazzanese o campodipietrese,

e nello stesso tempo di stare accanto alla città. Si può parlare di una disarticolazione della superficie contrassegnata dalla diffusione delle costruzioni oggetto di abuso, non di un’unica area di insediamenti irregolari. Per quanto riguarda strettamente il capoluogo regionale i circondari agricoli trasformati in villettopoli non conformi alle disposizioni del piano regolatore costituiscono oggi una nuova zona urbanistica di fatto, anche se non ancora di diritto. L’ambito urbano che ora comprende anche quello periurbano è formato di parti distinte, le principali sono centro storico, centro città, quartieri periferici, cui si aggiunge adesso il “perimetro”, definizione di legge, degli “insediamenti abusivi”. Una caratteristica comune delle sub-aree in cui sono numerosi gli edifici da sanarsi è la tipologia edilizia adottata che è quella della casa unifamiliare e per questo aspetto possono richiamare l’immagine della dimora contadina nonostante sia una cosa completamente differente.

Come le abitazioni dei contadini, è un fabbricato di proprietà, chi abita negli stabili oggetto di sanatoria non è mai in affitto. Si tratta di costruzioni, quelle di cui stiamo parlando, non realizzate per iniziativa di un imprenditore immobiliare che poi le mette in vendita e nel medesimo tempo non sono frutto di autocostruzione bensì commissionate a piccole imprese artigiane. Sono residenze di metratura consistente per cui esse sono destinate a rimanere sottutilizzate nel momento in cui il numero dei componenti del nucleo familiare si riduce. Edifici troppo grandi difficilmente suddivisibili in più unità non essendo tale scomposizione di un appartamento in molteplici quartini stata pensata nella fase di progettazione del manufatto. Tutt’al più le stanze che rimarranno vuote potrebbero essere riconvertite in vani per ricettività turistica. Nei “paraquartieri” di caseggiati denunciati come agricoli e invece utilizzati per abitarvi vi è il pericolo, va segnalato, di una coabitazione forzata con strutture pienamente agricole che nel caso di stalle risulterebbe insopportabile.

 25 - L’incidenza sull’ambiente circostante di Campobasso. Il terminal a servizio dei comuni viciniori

Campobasso in quanto grosso agglomerato abitativo è uno dei principali fattori di inquinamento ambientale nel Molise. I due depuratori urbani, quello sul Rivolo e quello sullo Scarabone, corsi d’acqua che sono chiamati a proseguire l’opera di depurazione dei liquami che queste attrezzature igienico-sanitarie in essi riversano; rimane, comunque, un carico residuo di inquinante che viene convogliato rispettivamente nel Biferno e nel Tappino producendo una qualche alterazione delle condizioni ecologiche di tali aste fluviali che solcano ampie porzioni del territorio molisano. Il capoluogo regionale per non compromettere le valenze naturalistiche di questi bacini fluviali ognuno dei quali comprende molti paesi è tenuto a mantenere in perfetta efficienza i propri sistemi depurativi. La riduzione dei rifiuti deve essere un obiettivo prioritario per la “capitale” del Molise anche in considerazione del fatto che la discarica in cui vengono sversati è sita in un altro ambito comunale, quello di Montagano, non nel proprio.

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Il traffico cittadino, è un ulteriore focus sull’attività dell’amministrazione civica, procura una diminuzione della qualità dell’aria sia all’interno del contesto cittadino sia, evidentemente perché l’atmosfera non rispetta i confini municipali, nel comprensorio circostante. Conseguenze sull’areale al contorno del perimetro amministrativo di Campobasso le ha anche il proliferare di costruzioni nell’agro, l’edificato costituendo una barriera fisica alla diffusione di specie animali e vegetali. Per quanto riguarda il costruito bisogna aggiungere che i siti di estrazione dei materiali impiegati nell’edilizia non sono ubicati nel territorio comunale, un tempo c’erano cave su un versante della collina Monforte, bensì stanno altrove, in comuni anche assai distanti. Il maggior aggregato urbanistico della nostra regione è quello, proprio per la sua dimensione demografica, dove si registrano i più elevati consumi idrici (complessivi, non pro-capite evidentemente).

Per soddisfare le esigenze idriche di Campobasso, come degli altri centri serviti, che però sono più piccoli, dagli Acquedotti Sinistro e Centrale alimentati dalle sorgenti di questo fiume, si sottrae acqua al Biferno che è una componente dell’ecosistema di valore primario. È bene, perciò, tendere al recupero dell’acqua depurata per gli usi non potabili e a evitare gli sprechi. L’urbanizzazione di cui sopra provoca oltre alla frammentazione degli habitat la cementificazione del suolo con un conseguente rischio di modifica del regime idrologico sia superficiale che sotterraneo arrivando a minacciare l’integrità delle falde acquifere. Essere il centro più grande della regione, investito, per di più, del ruolo di capoluogo della stessa in veste Campobasso in veste della responsabilità di limitare il suo impatto quanto più è possibile sulle componenti dell’ambiente il quale condivide con il resto del tessuto insediativo,

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deve essere un esempio di gestione ecologica. Campobasso deve attenzione ai piccoli Comuni anche in termini di accoglienza dei pendolari che si recano in città per usufruire dei servizi di livello superiore che essa offre. Ci soffermiamo sul punto di sbarco, se così si può dire, in particolare il Terminal, non solo di coloro che viaggiano per motivi di lavoro o di studio, ma anche di quanti vengono qui per acquisti, questi con una cadenza più rada degli altri, visite mediche specialistiche e talvolta pure, con frequenza inferiore di certo, per assistere a manifestazioni culturali, sportive o ricreative lo svolgimento delle quali risulti essere compatibile con gli orari delle corse dei pullman extraurbani. Abbiamo detto che ci interesseremo al Terminal e non alla Stazione ferroviaria. L’impatto iniziale con la realtà urbana per i pendolari è rappresentato dal Terminal a proposito del quale è interessante osservare la tipologia dell’opera che non è costituita da una sommatoria di elementi distinti, biglietteria, bar, wc, rivendita di giornali e altri box per usi vari, oltre alle pensiline per l’attesa dei viaggiatori, bensì è formata da un unico corpo alla stregua di un padiglione seppure privo di setti di chiusura ai lati. In definitiva il Terminal è fatto da una copertura continua sotto la quale trovano collocazione tutti i servizi necessari alle persone in transito indicati sopra i quali non occupano l’intero ambito coperto rimanendo libera una superficie consistente.

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In questa che appare quale spazio flessibile possono essere previste sedute per rendere l’attesa dell’arrivo dei bus più gradevole, pannellature con illustrazioni riguardanti, mettiamo, il patrimonio culturale campobassano, una specie di vetrina della nostra cittadina e altro ancora, c’è posto a sufficienza. In aggiunta, nel Terminal potrebbero essere installate rastrelliere per bici elettriche a disposizione di coloro che giunti nel capoluogo regionale con mezzi di trasporto collettivo vogliano muoversi in città, raggiungere le mete per cui si sono messi in viaggio, con un mezzo di trasporto individuale, appunto la bicicletta, invece che con le navette. Per migliorare il collegamento pedonale tra la predetta stazione degli autobus e il centro cittadino è stato realizzato un percorso per pedoni in sede propria, cioè non affiancato a strade, che avvicina all’area centrale dell’abitato; esso che è sopraelevato fa il paio con il sottopasso che dalla stazione ferroviaria conduce nei pressi del Terminal. L’intermodalità è così, in qualche modo, assicurata. Una separazione per livelli della mobilità, quella che si basa sui propri piedi in alto, la passerella, e in basso, il sottopassaggio e nel cosiddetto piano di campagna le corsie degli autobus. Bisogna riconoscere, in conclusione, che i frequentatori intermittenti e quelli saltuari di Campobasso debbano ricevere un trattamento adeguato al loro arrivo, un’accoglienza se non calorosa perlomeno amichevole.

5 - Il Castello Monforte
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