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A PROPOSITO DI SAN MASSIMO

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1 - Casa signorile a San Massimo

Avremo presente all’orizzonte nella presente esposizione, a volte nominandola espressamente a volte non citandola, sempre una “casa palazziata”, traducibile in “casa sotto forma di palazzo”, che sta in via S. Rocco in S. Massimo. Adottiamo, prendiamo in adozione, questo edificio quale esemplare rappresentativo delle dimore signorili ottocentesche le quali si rinvengono in ogni paese del Molise poiché in tutte le realtà comunali si andò affermando in quel secolo il ceto dei “galantuomini”, le persone di estrazione borghese che le abitano. Si denuncia che si è scelto di prendere tale fabbricato quale esempio perché se ne ha una conoscenza diretta. Non la si finisce qui con il preambolo perché c’è da aggiungere un’altra premessa che è quella che la descrizione è finalizzata a mettere in luce le differenze che intercorrono tra la concezione dell’abitare del passato, seppure limitato alla classe dei “don”, e quella odierna. 

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Possiamo procedere. Nelle abitazioni antiche, sia popolari sia di un certo rango, il loro spazio interiore è del tutto amorfo, le funzioni dei loro vani erano indifferenziate nel senso che la destinazione d’uso assolta non era esclusiva; oggi, per capirci i metri quadri e la lunghezza dei lati di una stanza da letto derivano da uno studio preciso, l’existenzminimum, sulla disposizione dei mobili mentre in precedenza era il mobilio a doversi adeguare alla stanza. Non è che nei palazzotti del passato non vi fosse una distinzione funzionale dei locali, ma essa era determinata solo dall’utilizzo che ne facevano coloro che vi vivevano; vedi le camere da letto, con l’eccezione della matrimoniale che rimaneva tale anche se i genitori erano ormai deceduti, quelle dei figlioli denominate con il nome di chi della prole la occupava, erano adattabili in breve, se la discendenza era esigua, in salottini oppure studioli. Un fatto linguistico, dunque, non ergonomico. Paradossalmente, nonostante l’elasticità nell’attribuzione di funzioni ai vani che le compongono le case gentilizie rivelano una rigidità nella scomposizione della volumetria in più unità immobiliari, magari per suddividere lo stabile tra i successori; è questa, peraltro, una delle cause principali del loro abbandono, troppo grosse, dispersive, onerose da gestire per un unico nucleo famigliare. Sono assolutamente non conformi agli standards residenziali di oggigiorno. Il caso che abbiamo assunto quale riferimento è un caso a sé, per la casa palazziata sanmassimese il problema non si è posto perché uno degli eredi generosamente si è fatto carico di ricomprare le quote testamentarie del resto dei coeredi e di provvedere da solo alla manutenzione dell’edificio. Le residenze datate, non c’entra se grandi o piccole, si fa fatica ad abitare se non da parte di chi vi ha sempre vissuto, datato anch’egli, una generazione che va scomparendo. 

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Non riesce a fare presa per convincere i proprietari a mantenere viva la casa di famiglia neanche il fatto che sia, appunto, la casa di famiglia in cui sono custodite le memorie avite, neanche se si tratta di manufatti architettonici di prestigio. Il destino di tante di esse, che le ha salvate dal deperimento, è stato l’acquisizione da parte dei Comuni che le hanno trasformate in museo, municipio, centro culturale, casa di riposo. Se c’è una cosa in comune tra i palazzi storici e gli alloggi attuali, si parva licet componere magnis essendo, è noto, le prime grandi e le seconde piccole, è la ripartizione interna fra zona notte e zona giorno. Nella fabbrica di v. S. Rocco del centro matesino le camere da letto stanno al piano superiore e la cucina affiancata alla camera da pranzo e soggiorno a quello inferiore. La domus parva non ha i locali di rappresentanza, all’apposto della domus magna; essi sono collocati al secondo livello il quale è denominato piano nobile.

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Ci sono 2 cose da sottolineare a tal proposito, l’una è che si trovano al I piano che è il più distante dalla strada poiché destinati come sono a ricevimenti riservati, esclusivi devono aver luogo in un luogo appartato, l’altra è che l’ambito dedicato al riposo notturno ubicato al medesimo livello è, in particolare la camera degli sposi, oggetto di visite, legate all’esposizione della dote, alla nascita della prole, durante la convalescenza di un coniuge e fino alla veglia mortuaria per cui anch’esso ha caratteri di rappresentatività. La stanza matrimoniale, tanto nelle casette popolari quanto nelle magioni aristocratiche, è dotata di componenti di arredo di pregio tra cui vanno ricomprese le coperte finemente tessute, pezzi di valore che entrano nell’asse ereditario.

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Per quanto riguarda le qualità spaziali è da dire che nelle architetture residenziali di livello non c’è attenzione alla privacy: in assenza di corridoio ogni vano è di passaggio, qualcuno arriva ad avere ben 6 porte (succede nella casa palazziata in esame). È impossibile non essere in contatto con gli altri membri della famiglia costantemente, condivisione delle superfici che si verifica pure nelle abitazioni umili dove si vive tutti nello stesso ambiente in quanto il solo che c’è. È all’unisono un fattore di disagio per la convivenza forzata e un elemento di rafforzamento dei legami famigliari. Il silenzio si è ormai impossessato di queste dimore prendendo il posto del vociare continuo dei suoi abitanti, componenti di famiglie numerose. Lo svuotamento non ha prodotto un’atmosfera di quiete bensì di desolazione.

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IN VERSIONE SFOGLIABILE

2 - Caratteri di via S.Rocco a S.Massimo
2 - Caratteri di via S.Rocco a S.Massimo
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Via S. Rocco la si può definire una strada «matrice» e non un percorso «d’impianto» in quanto essa non è stata concepita per consentire l’edificazione al suo contorno, bensì è un percorso con la funzione di congiungere l’abitato con la chiesa di S. Rocco la quale sta fuori le mura perché funge, succede in tanti paesi molisani, da cimitero dei morti per la peste del 1630, quella manzoniana. In altri termini via S. Rocco preesiste alle case che le si addossano ai margini e non, al contrario, per permettere l’espansione urbana. Via S. Rocco nasce dalla piazza della chiesa parrocchiale e si conclude quando incrocia la strada provinciale su cui prospetta la chiesetta di S. Rocco e durante il suo svolgimento incontra altri tre percorsi. Ci soffermiamo sul primo di questi che si trova proprio all’inizio di via S. Rocco; esso è piuttosto un vicolo che una strada e non compare nella toponomastica comunale. Seppure non ha neanche la dignità di avere un nome è, comunque, significativo se letto insieme a quello ad esso parallelo che sta poco dopo ed adesso ne vediamo il perché. Si tratta di due viuzze, la seconda delle quali peraltro è a fondo cieco ed è di proprietà privata, che contornano l’imponente palazzo Piccirilli, voluto dal canonico Gioia, un personaggio di grande cultura, parente stretto (zio o fratello?) del famoso pittore Raffaele Gioia. L’aulicità di questo edificio è sottolineata dalla presenza dei due percorsi che lo fiancheggiano i quali lo isolano (in verità uno dei due è mascherato da un per così dire finto muro) dal resto dei fabbricati, un cosiddetto isolamento dorato. Per quanto riguarda la distinzione tra percorsi matrice e d’impianto di cui si è detto sopra possiamo considerare i 2 vicoli appartenere a questi ultimi perché nati per delimitare il palazzo, cioè contemporaneamente ad esso. Essi non lo precedono, ma in qualche modo costituiscono un insieme, palazzo-maglia viaria. A proposito del palazzo Piccirilli, e ciò vale pure per il contiguo palazzo Tortorelli, si vuole sottolineare pure che le torri ad essi addossate vanno intese come un motivo ornamentale e non quali elementi del sistema difensivo urbano, semmai, ma evidentemente non è così, del singolo edificio, alla stregua delle torri di un castello; che non siamo di fronte alla cinta fortificata dell’insediamento medioevale è dimostrato dal loro essere collocate sul terrapieno che costituisce il giardino, posto davvero insolito per delle torri. Per il palazzo Piccirilli è giusto usare il termine di tipo edilizio a blocco che, invece, non è appropriato per il palazzo Manfredi-Selvaggi collocato pochi passi dopo poiché esso è congiunto con la casa Silvestri. Non è corretto, però, adoperare la dizione di tipo edilizio a schiera il quale non è davvero appropriato. È un comparto quello che include le abitazioni Manfredi-Selvaggi e Silvestri sbilanciato nel senso che vi è una sproporzione nelle costruzioni, la seconda delle quali è molto più piccola dell’altra. A smentire la lettura di edificazione a schiera, la quale ha dalla sua il fatto che si congiungono per le quinte, vi è che l’altezza dei corpi edilizi non è scalettata seguendo l’andamento del pendio, bensì nel verso contrario. Osservando quanto succede dal lato opposto della strada, nel tratto che fronteggia

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la congiunzione tra le proprietà Manfredi-Selvaggi e Silvestri notiamo che qui il palazzo ora Farrace, un tempo Maselli, spezza la sua copertura in 2 parti, riducendosi di un piano nel pezzo più basso, quasi volesse rispettare lo sviluppo in pendenza della strada: a spiegare ciò è forse l’appartenenza della porzione con altezza minore alla famiglia Selvaggi che possedeva l’edificio confinante il quale raggiunge la medesima quota, famiglia imparentata con i Maselli dai quali potrebbe averla ricevuta in eredità (a confermare l’unitarietà del costruito è la presenza del cortile interno sul quale prospettano sia la proprietà Selvaggi che quella Maselli). Ritornando a porre l’attenzione sul palazzo Manfredi-Selvaggi si nota un particolare interessante:  il portone principale, sottolineato dal balcone sovrapposto, è quello situato nella zona alta della via S. Rocco e non solo perché conduce agli ambienti abitativi mentre l’altro portone è posto al livello dei fondaci, ma anche perché è il più vicino alla piazza. Più via S. Rocco scende più perde i caratteri urbani tanto che nell’ultimo spezzone da un lato, quello della proprietà Manfredi-Selvaggi, è delimitata dal muro del giardino di questo palazzo, cosa abbastanza inconsueta per una strada quella di avere fronteggianti fra di loro una abitazione e l’alto paramento in pietra che sostiene il terrapieno del giardino. All’inizio si è fatto cenno all’incrocio di via S. Rocco con altri percorsi: il principale, vedesi quanto spiegato prima, è via Impero. Analizziamo prima di tutto il punto dove si incontrano queste due strade il quale, nonostante le dimensioni limitate, costituisce pur sempre un crocevia; via S. Rocco qui spiana ed il piano è una caratteristica propria delle piazze le quali devono essere pianeggianti poiché luoghi di incontro. Per dare ariosità a tale punto si ebbe la smussatura dell’angolo del palazzo Manfredi-Selvaggi.

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Vi sono due sedute in pietra a rimarcare che è un momento di sosta ed esse, è scontato, devono essere piane. Su questa sorta di piazzetta, in infinitesimo, si apre l’accesso del palazzo Selvaggi la  cui ubicazione lì è in dipendenza di certo della presenza dello slargo cercando, in qualche modo, di accreditare l’idea che essa sia la corte d’ingresso dell’edificio. Che questo portone, che è di una notevole ampiezza, inoltre, abbia la volontà di misurarsi con l’impianto urbanistico lo si desume pure dal suo essere in asse con la via della quale costituisce il fondale prospettico. La continuità della edificazione lungo via S. Rocco non si interrompe mai, né nel tratto in cui il palazzo Piccirilli si distacca dalla casa Silvestri perché tale cesura è occultata da una porta che si apre sulla strada né nell’incrociarsi della nostra via con via Impero. Un arco con sovrapposto un locale abitativo sostenuto da volta a botte collega le due porzioni del palazzo Selvaggi fungendo tanto da corpo di controspinta tra fabbricato e fabbricato quanto da vano di passaggio al piano superiore tra la parte originaria del palazzo e il suo ampliamento. La continuità cui si è fatto cenno di via S. Rocco si spiega altresì con la tendenza del tessuto viario di essere a maglie larghe, derivando dalle antiche strade di collegamento extraurbano che si dipartivano dal nucleo storico le quali sono evidentemente poche. Infine, si vuole rimarcare che le costruzioni che prospettano su via S. Rocco non sono mai (salvo palazzo Piccirilli) ricomprese in « isolati »; pure lo stesso palazzo Farrace che è racchiuso tra due percorsi urbani non fa parte di un isolato, confinando con l’altra strada mediante un giardinetto. La schiera edilizia che inizia dal palazzo Selvaggi e va a scendere sul medesimo lato alle sue spalle ha sempre orti, mentre sul lato opposto i fabbricati hanno giardini pensili che confinano con la strada provinciale e queste aree di pertinenza hanno la lunghezza variabile in dipendenza del tracciato della provinciale, alla stregua di aree di risulta. La via S. Rocco deve avere avuto molteplici trasformazioni nella sua configurazione, la più significativa è naturalmente quella avvenuta dopo il terremoto del 1805 quando si pensa che alcuni edifici vennero rinnovati (il palazzo Piccirilli il cui crollo determinò la morte di Raffaele Gioia e della figlia, una porzione del palazzo Selvaggi venne distrutta dal sisma causando il decesso di un  certo Egidio, il palazzo Manfredi-Selvaggi venne ristrutturato e ampliato). Scontato che non c’è stata la contemporaneità dell’edificazione lungo la strada in quanto il primo piano urbanistico, è un piano di “allineamento”, è del 1877 è probabile che vi sia stato un processo di intasamento dei vuoti lasciati tra i fabbricati. Brevi ulteriori considerazioni riguardano: per i giardini, pur aree di risulta come rilevato prima, si rileva comunque un’intenzionalità in quanto sono sospesi su un terrapieno per ottenere il suolo in piano; gli edifici di via S. Rocco sono tutti unifamiliari, ma le tipologie edilizie, non facilmente riconoscibili, sono estremamente differenti; le altezze delle unità edilizie sono anch’esse diverse fra loro; l’edificazione di via S. Rocco è formata da strutture di notevole consistenza, superiore a quella delle costruzioni presenti nel resto dell’abitato storico; per il palazzo Piccirilli si può

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parlare di un isolato coincidente con una unità edilizia; non vi è una linea definita al contorno di via S. Rocco che non  ha una larghezza costante con l’avanzamento del palazzo Manfredi-Selvaggi e di una parte del palazzo Selvaggi; i gradini d’ingresso ad alcune abitazioni occupano il suolo stradale. Si conclude qui l’esposizione delle particolarità riscontrabili nell’osservazione di via S. Rocco che conferiscono ad essa una certa unicità, non permettendo di riconoscere alcun modello ricorrente e ciò, del resto, è quanto succede in qualsiasi angolo di qualsiasi centro storico. La cosa che colpisce maggiormente, all’interno di essa, rimane il rapporto, rovesciato, tra la casa Silvestri e il palazzo Manfredi-Selvaggi il quale contraddice la regola che l’edificio a monte sovrasta quello a valle, fatto paradossale che mette in evidenza l’inutilità di ogni sforzo per la ricerca di una logica nell’aggregazione dei volumi edilizi lungo via S. Rocco.

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3 - Il giardinetto e la
3 - La fontana e il giardinetto pubblico di S.Massimo
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Dopo l’unità d’Italia si pose a S. Massimo, come in altri centri del Molise a cominciare da Campobasso, il problema della modernizzazione dell’insediamento urbano. L’occasione fu anche quella del terremoto avvenuto agli inizi di quel secolo che avendo provocato seri danni spingeva a mettere mano ad interventi di sistemazione dell’abitato. Il sisma del 26 luglio 1805 oltre a causare la morte di 70 persone aveva minato la stabilità delle vecchie mura del borgo medioevale le quali vennero abbattute in parte per creare ampi viali, le odierne via Roma e via Impero, dove dovevano trovare posto edifici pubblici (il palazzo della scuola previsto, ma non realizzato sul sito dell’orto della casa prima Farano e ora Galeassi) e il giardino comunale (appunto la Fontana).

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Questa sostituzione delle murazioni (più propriamente dei fossati adiacenti) con larghi ed ariosi viali alberati costituiva un ampliamento del nucleo originario. Ampliamenti che ormai erano favoriti in ogni Comune del nostro Paese dalla legge per gli espropri che è proprio di quegli anni e che venne varata dal nuovo Stato unitario per risolvere il problema del Risanamento di Napoli dove fu effettuato lo sventramento dei quartieri popolari per la creazione del Rettifilo (corso Umberto). In quel periodo a S. Massimo,

grazie anche a questo strumento legislativo, fu possibile avviare un autentico programma di grandi opere. Infatti fu effettuata una serie di operazioni urbanistiche che riguardarono non solo la zona posta fuori delle mura con i 2 viali e la Fontana, ma che portarono anche alla trasformazione del vecchio centro con la demolizione di abitazioni per la formazione della piazza Marconi, l’allargamento (per fortuna solo pianificato ma non attuato) della via Piccirilli (dovevano essere abbattute le scale esterne alle case), oltre alla costruzione di attrezzature collettive (appunto la scuola di cui si è detto). Tutte queste iniziative rientravano in un piano regolatore redatto dall’ing. Mazzarotta nel 1877 in cui, si fa rilevare, il disegno delle opere e dei tracciati viari non viene disgiunto dal sistema del verde.

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Pure a S. Massimo, alla stessa maniera di altri Comuni di ben più grandi dimensioni, il verde è una componente fondamentale della politica di risanamento urbano. Siamo nell’epoca nella quale il verde si afferma nella organizzazione urbanistica per lenire le disfunzioni provocate dalla prima rivoluzione industriale: si pensi a città quali Londra, Milano, ecc.. Pur se in un ben altro contesto l’attenzione al verde rivela anche qui da noi il passaggio ad un’era più attenta alle esigenze sociali. Il verde pubblico, formato dal giardino della Fontana e dai viali alberati, e, quindi, accessibile a tutti i cittadini costituisce un’affermazione dei valori che si andavano diffondendo allora di uguaglianza e di giustizia sociale. L’importanza data alla questione del verde nei centri cittadini man mano si diffuse anche nelle località più piccole che cominciarono ad imitare le realtà urbane maggiori, diventando quasi una moda. Il verde assume un ruolo fondamentale nel decoro urbano così caro alla classe borghese che andava emergendo pure a S. Massimo, soppiantando nella guida del centro il vecchio ceto feudale. Mentre il feudatario associava la sua immagine a quella del castello, il prestigio della nascente borghesia era affidato proprio al decoro urbano. Nuovi stili di vita si andavano affermando che richiedevano viali per il passeggio, giardini per l’incontro e la conversazione. Il verde legato com’è al decoro penetra dappertutto dal cimitero (una nuova infrastruttura cittadina che nasce nel medesimo arco temporale sulla scorta dei decreti napoleonici) poiché la morte è vista come sublimazione della natura, ai giardini delle abitazioni private (il più bello è quello appartenente agli eredi del dott. Giuseppe Selvaggi con le aiuolette, il gazebo e, specialmente, il pino marittimo).

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 Una ex-discarica diventerà giardinetto comunale (al cui interno viene posto il busto dell’on. Enzo Selvaggi) e di essa rimane solo il ricordo nel nome popolare di “monnezzaro”. Il verde, però, va visto a S. Massimo come altrove quale insieme e non come una sommatoria di punti; nelle intenzioni degli amministratori locali ottocenteschi doveva essere proprio così come testimonia la contiguità tra il giardino della Fontana, il verde alberato, il verde antistante alla scuola in progetto, il parco privato nel quale sarebbe dovuta sorgere una residenza signorile e di cui rimangono le imponenti mura di sostegno del terrazzamento in località Fonticella oltre che il muro di recinzione lungo via Roma. Il fulcro di questo sistema era costituito proprio dal giardino della Fontana. Si tratta di un giardino di dimensioni forzosamente ridotte come, del resto, deve essere ogni giardino urbano. In questo giardino piccolissimo trovano, comunque, spazio vialetti sinuosi, aiuole e la fontana. Il giardino è impreziosito da un gioco d’acqua costituito dai zampilli i quali fuoriescono da teste leonine e che cadono in una vasca. La fontana rappresenta, in un certo senso, la celebrazione dell’acqua proveniente dall’acquedotto comunale costruito contestualmente che serve altre due fontanelle dalle quali i cittadini potevano attingere. Si ricrea, così, artificio e natura nel centro urbano. Nelle aiuole vengono piantati alberi e non fiori per la loro facilità di mantenimento. Qui domina l’agrifoglio, una pianta locale, mentre via Roma è ombreggiata dagli ippocastani, una specie esotica. Il giardino della Fontana è anche un belvedere che permette di spaziare dalla vallata sottostante alla montagna. Quello della terrazza è un tema ricorrente del giardino storico e ben si addice a questo luogo che ha un’elevata panoramicità. In definitiva il giardino della fontana è l’emblema più efficace dell’atteggiamento culturale di quest’epoca di profonde innovazioni urbanistiche contraddistinte dalla cura unitaria per gli aspetti funzionali e per quelli estetici.

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4 - La piazza di S. Massimo

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Se è vero che la componente della struttura urbana che resiste maggiormente al cambiamento è costituita dagli spazi pubblici, vedi la rete viaria, che le aree collettive rappresentano in qualche modo lo zoccolo duro dell’abitato, mentre le costruzioni edilizie sono soggette a modificazioni, sostituzioni, ecc. nel tempo, ciò non è più vero quando si verifica un terremoto. Ogni ricostruzione successiva ad un sisma oltre che della riparazione dei danni ai fabbricati si è occupata della revisione dell’impianto urbanistico a cominciare da quello del 1456 quando a Campobasso il Conte Cola colse l’occasione per radere al suolo il quartiere che sorgeva ai piedi del suo maniero allo scopo di arroccarsi, per finire con quello di S. Giuliano dove si è avuta la realizzazione del Parco della Memoria. A S. Massimo a seguito dell’evento tellurico del 26 luglio 1805 si procedette a demolire un intero caseggiato per fare una piazza; in “tempo di pace” gli insediamenti evolvono molto lentamente mentre in “tempo di guerra”, quello della calamità, le trasformazioni avvengono in modo rapido (in verità neanche tanto se ci vollero 70 anni per varare il piano dell’ing. Mazzarotta contenente il nuovo disegno dell’agglomerato abitativo).

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Bisogna ricordare che è nella seconda metà del XIX secolo, lo stesso periodo del rifacimento dell’assetto insediativo di questo comune, che si mettono in moto grandi azioni di rinnovamento degli aggregati residenziali i quali, sostanzialmente, consistono in sventramenti all’interno della massa edificata e quali esempi illustri si citano, a livello nazionale, il Rettifilo di Napoli e, a quello europeo, i viali del Barone Hausmann a Parigi. Tali eventi erano finalizzati al “risanamento” (così si chiamava la società partenopea preposta all’operazione) della situazione igienica creando vuoti per dare luce e aria alle abitazioni, cosa che, ovviamente, non è il fondamento dell’iniziativa sanmassimese perché non erano avvertiti in centri minori come il nostro simili problemi. In comune, comunque, in tutte queste realtà, grandi e piccole, vi è la volontà di migliorare l’aspetto estetico dei nuclei urbani, conformandolo alle tendenze artistiche del neoclassicismo. Nel centro matesino le esigenze che hanno spinto alla formazione di questo luogo privo di costruzioni sono, in primo luogo, quello di liberarsi delle macerie piuttosto che consolidare i resti delle case e, in secondo luogo, di ordine monumentale e funzionale. Per quanto riguarda quest’ultimo c’è da dire che le piazze vere e proprie sono rarissime nei paesi molisani, in particolare quelle che sono frutto di un’apposita progettazione, mancando, per citare solamente entità urbane confinanti con quella in questione, a Boiano in cui piazza Roma è una sorta di villa comunale, mentre piazza Duomo è poco più che il sagrato della cattedrale, a Cantalupo e a Roccamandolfi dove, in entrambe la chiesa parrocchiale offre un lato, che è un muro cieco, allo spazio libero destinato poi a piazza. Nell’Italia dei Comuni, invece, le piazze sono state sentite come autentiche attrezzature civiche in quanto punti di aggregazione che favoriscono le relazioni sociali se non la partecipazione alla politica. Tali funzioni sembra siano state assolte dalla piazza di S. Massimo perché qui si è sempre montata la cosiddetta cassa armonica su cui suona l’orchestra in occasione della maggiore festività cittadina, la festa della Madonna, si accende il tradizionale falò nella notte di Natale e ogni altro evento che coinvolge la comunità che, così, viene a riconoscersi in essa, assurgendo al ruolo di fulcro dell’insediamento. 

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Nella piazza si tengono i comizi elettorali e, quindi, è il posto che favorisce la democrazia; a tale proposito, va evidenziato che la piazza nasce in concomitanza con la nascita dei primi partiti popolari (si rammenta che il regime borbonico era di tipo assolutista); ciò è, di certo, positivo senonché, occorre sottolinearlo, le donne erano escluse in quell’epoca dalle votazioni. Il potere del feudatario, figura che scompare nel 1805, passa alla cittadinanza e la sua sede, il municipio, si colloca nella piazza (il castello colpito dalle scosse sismiche, che sta decentrato con la piazzetta annessa,  il Colle di Corte, non viene restaurato e non ci sarebbe stato, per quanto detto, il motivo). Rimane forte l’autorità ecclesiastica e, del resto, la popolazione locale è stata sempre molto religiosa; c’è un risvolto fisico di questo grande peso della Chiesa nel sistema sociale ed è la posizione rialzata della chiesa principale rispetto alla quota  della piazza sulla quale anch’essa prospetta, ricostruita dalle fondamenta dopo quel terribile terremoto (da 3 navate diventa ad unica navata). C’è un ulteriore attore con una parte decisiva sulla scena pubblica che è rappresentato dal ceto dei “galantuomini”. Esso ha una notevole influenza sulla società sia perché composto da professionisti, notaio, medico, avvocato, ai quali, prima o poi, ogni persona deve rivolgersi sia perché sono i maggiori proprietari terrieri e l’economia in borghi rurali come S. Massimo girava tutta sull’agricoltura. Appellati con il titolo di  ‘don’ costituiscono il notabilato che vuole manifestare lo status raggiunto anche attraverso la magnificenza delle proprie residenze. Una delle famiglie emerse all’indomani della fine del feudalesimo è quella dei Tortorelli il cui palazzo va ad occupare una porzione consistente di uno dei lati lunghi della piazza. Se intendiamo quest’ultima come un palcoscenico teatrale in cui si rappresenta la vita del borgo, la “commedia umana”, la «casa palaziata», secondo il modo di dire di allora, dei Tortorelli per l’estensione della sua facciata ne forma uno dei fondali. Essi avevano lasciato l’avita dimora nel nucleo medioevale sottoposto, non solo figurativamente, al  maniero feudale e si erano spostati a valle dove stanno edificando le residenze, sempre pretenziose, altre unità famigliari (Gioia, Maselli, Selvaggi, ecc,) appartenenti all’emergente classe borghese. Sono fabbriche grosse che si contrappongono, non solo fisicamente, all’edilizia minuta della zona più antica del centro. La piazza funge da baricentro tra queste due distinte parti urbane, a servizio di entrambe, e, nello stesso tempo ha una sua autonomia, ha caratteri stilistici definiti che rimandano all’architettura colta (monumentali li abbiamo chiamati prima) per la sua pianta regolare, quasi rettangolare, la presenza di un asse di simmetria che la attraversa partendo dal municipio e raggiungendo l’ingresso della chiesa-madre e poi c’è l’antico portale rivestito da bugne appiattite in pietra  e sormontato dallo stemma gentilizio dei Tortorelli tra gli elementi che partecipano a questo grande spazio comune.

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