
Molise paesaggio acqua
Il fattore idrico nel territorio regionale
Il mondo acquatico sotto e sopra la superficie terrestre
L’elemento liquido nei vari quadri visivi
Un segno fluido nell’immagine paesaggistica
Il Biferno come aorta del sistema idrografico del Molise
​I principali problemi dei nostri corsi d’acqua
La qualità dell’ambiente per la qualità delle acque
Le prospettive turistiche dei fiumi e non solo
Il lago di Castel San Vincenzo e l'orso
Il Biferno, caratteri naturalistici



Il fattore idrico nel territorio regionale
Quando si parla di acqua si parla di tante cose insieme. Infatti l’acqua cambia di stato, potendo diventare ghiaccio o vapore; l’acqua può avere qualità differenti, trovandosi acque minerali, e nel Molise ve ne sono molte, o solfuree (quella di Isernia, ma anche meno conosciute come quella di S. Massimo) e qui è anche una questione di odore e di sapore;


vi sono acque con colori diversi e ciò dipende dagli alberi che si riflettono in essa, come in alcuni tratti del Biferno, o dalla presenza di nuvole nel cielo (questi effetti sono leggibili nei grandi bacini artificiali del Liscione e di Occhito e meno nel mare, specie quando è mosso perché l’increspatura della superficie impedisce al cielo di specchiarsi); la forma dell’acqua dipende dal moto perché è ben diverso il suo aspetto quando un fiume crea una cascata (alcune veramente suggestive come quella di S. Nicola a Guardiaregia o dello Scaffaturo a Montagano) rispetto a quando corre placido e dal moto dipende pure il rumore dell’acqua;
l’acqua presenta temperature differenti a seconda dei luoghi e delle stagioni.
Vi sono, poi, acque che non vediamo perché stanno sottoterra nelle cavità dei grandi massicci carsici del Matese e della Montagnola; per la loro abbondanza esse sono utilizzate per alimentare i principali sistemi acquedottistici molisani. L’acqua è ricchezza anche quando si presenta sotto forma di neve, almeno per le località che vivono degli sports invernali (Campitello e Capracotta). La pioggia invece, un’altra manifestazione dell’acqua, a volte è invocata (le lunghe siccità estive come quelle recenti) ed a volte è temuta (per il rischio alluvione quale quella del 23 gennaio del 2003); sicuramente è meno gradita la grandine che la pioggia. La nebbia, la quale non è altro che acqua nebulizzata, è caratteristica di certe aree di pianura e delle vallate dei maggiori fiumi del Molise specie nelle prime ore del giorno. Guardandola da un altro punto di vista, quello che va alla ricerca dei valori simbolici nelle cose, si vede che all’acqua sono attribuiti molti significati. Essa è il simbolo della vita ed è la sostanza purificatrice del peccato (attraverso il Battesimo). Essa garantisce la protezione dai mali per cui a S.Angelo in Grotte nella chiesa di S. Michele il pellegrino la beve attingendola dal pozzo; è la stessa protezione che a Lourdes è data dall’immersione del corpo nell’acqua. l’acqua presenta temperature differenti a seconda dei luoghi e delle stagioni.
L’ alluvione che ha colpito il basso Molise rimanda all’immagine del Diluvio Universale. Abbiamo sperimentato in quell’occasione l’effetto della “perdita del luogo” che deriva dalla cancellazione dei tratti del paesaggio in quanto l’inondazione ha coperto il territorio con una vasta distesa d’acqua. L’acqua, in ogni modo, non è associabile solo alle calamità (che non sono unicamente le inondazioni) poiché essa compare come elemento fondamentale nelle raffigurazioni che ci siamo fatte del Paradiso. Il Giardino Terrestre è il modello di riferimento della nostra cultura paesaggistica. Non è possibile immaginare un giardino nel quale non sia presente l’acqua; si tratta sempre di acque «dome» sia che esse compaiono nella loro forma naturale (ruscelli, stagni, ecc.) sia che esse acquistino forma dal manufatto architettonico in cui sono inserite (fontane, vasche, canali, ecc.). L’acqua arricchisce il giardino se non fosse altro per il suo suono quando scorre o perché d’estate serve a rinfrescare l’aria o, quando si tratta di fontane monumentali, per accentuare alcune prospettive. L’acqua ha una essenza vitale, tanto per la sua semplicità quanto per la sua forza, che la fa associare alla creazione del mondo. Bisogna considerare che il dissetarsi è una esigenza primaria dell’uomo e non esiste soddisfazione maggiore di quella del placare la propria sete;

il gesto del bere, specie quando avviene direttamente ponendo la bocca a contatto con la fonte senza utilizzare recipienti, è un gesto primordiale che l’essere umano ha compiuto fin da quando è apparso sulla Terra. Per la carica semantica che l’acqua possiede essa è stata sempre oggetto di rappresentazioni artistiche. Si pensi alle fontane al centro dei peristili delle case romane o ai giochi d’acqua in epoca barocca oppure alla particolare caratterizzazione di alcuni abbeveratoi come quello di località Centocelle sul tratturo dove vi è uno stemma nobiliare oppure ancora alle fontane. Si cita tra queste ultime quella di S. Egidio di Boiano con le cannelle a forma di cinghiale. Una fontana particolare è quella di piazza Stazione ad Isernia dove si ha una catena d’acqua che scende in terrazze degradanti.
Vi sono, poi, i segni lasciati dall’acqua sulle pietre mediante una lenta erosione che hanno solleticato la fantasia popolare spingendovi a vedere impronte misteriose (l’impronta del piede dell’angelo a Macchiagodena, la “pedatella” di S. Margherita a Colledanchise, la mano del diavolo presso la Fonte dei Lontri a Boiano e così via). Sono questi effetti indiretti dell’acqua così come possiamo considerare come una conseguenza del passaggio di un fiume la visione dei ponti che, a volte, sono spettacolari suscitando meraviglia specie quando sono ad una sola campata per la loro arditezza costruttiva: è il caso del ponte a schiera d’asino denominato di S. Rocco sul torrente Tappone presso il centro abitato di Sepino o il ponte “del diavolo” detto dell’Arcichiaro in prossimità della gola del torrente Quirino nel territorio comunale di Guardiaregia.

L’acqua è in definitiva parte integrante della nostra vita sia per i suoi effetti diretti che per quelli indiretti entrando in ogni aspetto dell’esistenza umana. L’acqua è indispensabile pure per le specie animali e vegetali e, pertanto, l’inquinamento dei fiumi, una costante minaccia anche per quelli molisani, rischia di compromettere la sopravvivenza oltre che dei pesci di tanti animali selvatici (tra cui la lontra di cui sono state trovate tracce lungo il Biferno) che in essi abbeverano e di diverse piante che crescono sulle loro rive. La primaria funzione riconosciuta all’acqua, dalla legge fondamentale del settore, la cosiddetta Legge Galli, è però quella potabile. Recenti dati ci dicono che 1 miliardo e 400 mila persone ancora non dispongono di acqua potabile. La sua scarsità fa pensare a molti che il bene più prezioso nel futuro non sarà il petrolio, bensì l’acqua. Si paventa il pericolo di guerre scatenate per l’approvvigionamento dell’acqua. Senza connotazioni minacciose e senza superare il livello della diatriba politico-amministrativa pure qui da noi vi è una contesa sull’acqua che ci contrappone alla Campania relativamente al prelievo dalle sorgenti del Biferno. È questo un contenzioso che non ha ragione di esistere perché per l’acqua, così come per l’aria, non hanno senso i confini amministrativi delle Regioni e, d’altro canto, per quanto riguarda il Biferno bisogna riconoscere che il Matese, la montagna da cui questo fiume trae origine, è un massiccio montuoso comune ad entrambe le regioni.

Il mondo acquatico sotto e sopra la superficie terrestre
A tale proposito, cioè relativamente al fatto che l’acqua che beviamo scaturisce dal Matese, va rilevato pure che, in effetti, è sbagliato pensare a questo complesso montuoso come ad un luogo remoto, distante dalla civiltà dovendo riconoscere che esso, fornendoci questa preziosa risorsa, è parte integrante del nostro spazio esistenziale e che, di conseguenza, va tutelato. Seppure il Matese costituisce un cospicuo serbatoio idrico e che vi sono anche altre copiose scaturigini per cui il Molise è abbondante d’acqua si ha che non sempre è sufficiente quella dei nostri acquedotti. Certo, sono stati fatti passi giganteschi a partire da un secolo fa quando bisognava andare ad attingere per gli usi domestici alle fontanelle, mentre oggi abbiamo tutti l’acqua potabile in casa, ma necessita intervenire per limitare gli sprechi e per ridurre le perdite lungo le reti.
Non basta la razionalizzazione definita da un Piano di Utilizzo delle Acque varato da parte della Regione, ma occorre la consapevolezza diffusa della necessità del risparmio nei consumi d’acqua. L’affermarsi di questa convinzione negli individui permetterebbe di scongiurare la privatizzazione della gestione idrica (che si paventa anche qui da noi) la quale trae la sua motivazione dal fatto che l’acqua, diventando un bene limitato e non più una risorsa illimitata non può continuare ad essere pressoché gratuita. In effetti la crescita dell’industria delle acque minerali, in particolare quando ad essere imbottigliate sono le acque di sorgente senza alcuna proprietà terapeutica, va in questa direzione. Da tale riflessione ne deriva un’altra ed è che più che di scarsità di acqua occorre parlare di carenza di acqua di qualità. Se è vero che il fabbisogno di acqua
potabile per usi domestici,dove è più necessario che l’acqua abbia caratteristiche qualitative elevate, rappresenta una quota minima del fabbisogno globale almeno a livello nazionale (viene al primo posto l’irrigazione seguita dall’industria) vi è, però, l’esigenza dell’industria agroalimentare, per la quale l’acqua è un fattore di produzione, e dell’agricoltura biologica che l’acqua non sia perlomeno inquinata. Al contrario, vi è una quota d’acqua impiegata nelle attività produttive, quelle idroesigenti, che spesso presenta valori qualitativi che non sarebbero necessari e che potrebbe essere sostituita, mettiamo, con il reimpiego dei reflui civili. È anche questo un sistema per risparmiare questa risorsa così preziosa. Una risorsa, va ribadito, che nel Molise è abbondante perché ci sono precipitazioni sufficienti, diverse da quelle dello stereotipo del Sud, per cui le carenze idriche si devono
più all’inefficienza delle condotte che alla natura. La differenza tra il quantitativo di acqua immessa in rete e quella di acqua erogata all’utenza è rilevante ed è principalmente attribuibile all’obsolescenza di tratti della rete. Le più cospicue riserve idriche del Molise sono quelle contenute all’interno del comprensorio carsico matesino. L’acqua è abbondante perché qui la piovosità è copiosa, anzi si può dire che il Matese è la zona a maggiore piovosità della regione. Vi è un rapporto diretto tra la quantità delle precipitazioni e l’entità del ricarico delle falde poiché vi è uno scambio d’acqua tra la superficie e il sottosuolo. Va poi considerato, ai fini della valutazione delle riserve idriche sotterranee, la vastità del massiccio del Matese che si estende per oltre 100.000 ettari abbracciando due regioni, il Molise e la Campania.

Non si ha, comunque, una quantificazione realistica delle acque sotterranee (come del resto della risorsa idrica complessiva della regione mancando un catasto completo delle sorgenti) e questo è un problema comune a tutta la Penisola. Un atteggiamento prudente, per evitare l’impoverimento delle risorse idriche, dovrebbe stabilire che il ritmo di prelievo delle acque non sia superiore a quello dell’alimentazione delle falde. Le caratteristiche di queste acque sotterranee sono buone e le limitate contaminazioni batteriche riscontrate alle captazioni sono di scarsa significatività. Va sottolineato che la Regione non ha avuto mai bisogno di disporre deroghe ai requisiti di qualità delle acque erogate al consumo umano. Le acque sotterranee essendo meno esposte rispetto alle acque superficiali ai rischi di inquinamenti sia saltuari sia continuativi sono particolarmente idonee agli usi potabili. Inoltre, le acque sotterranee sono migliori a questo scopo per la loro elevata gradevolezza organolettica.
Sul Matese vi sono anche sorgenti di acqua minerale come quella di località Tre Fontane a Sepino che provengono da falde profonde come fa pensare la costanza della temperatura che è di 9,6° C per tutto l’anno. Per la loro funzione strategica quale serbatoio idropotabile va prodotto ogni sforzo per salvaguardarle. I pericoli per l’acquifero carsico del Matese che è altamente vulnerabile sono numerosi e vanno dal metanodotto che passa su Guardiaregia allo sversamento dei liquami di Civita Superiore che sta proprio sopra la sorgente di Pietrecadute fino ad un ipotetico incidente aereo che può determinare l’infiltrazione nel sottosuolo del carburante. Uno dei motivi per cui occorre evitare l’apertura di nuove cave in questa montagna è in effetti quello dell’inquinamento delle falde. Oltre ai bacini idrici all’interno del Matese vi sono anche due fiumi perenni a corso sotterraneo, il Sava e il Lete (che fuoriesce da una parete della montagna formando una spettacolare cascata), ambedue affluenti del Volturno. In questi casi l’acqua non sembra caratterizzare

l’immagine del paesaggio mentre essa, in moltissime altre situazioni, costituisce il connotato più evidente dei quadri visivi. L’acqua è determinante nella definizione dell’aspetto dei luoghi sia che si tratti di veri e propri fiumi sia che si tratti del reticolo idrografico minore che è fatto dalle rogge, dai fossi, dai canali di bonifica. L’acqua si manifesta nel paesaggio molisano in vari modi; sono segni paesistici differentissimi fra loro le pozze, i laghi (di Guardialfiera e di Occhito), i fiumi (il Trigno, il Biferno, il Fortore) e le loro foci, il mare, la rete di irrigazione, le sorgenti, le cascate, i corsi d’acqua tranquilli e quelli che formano rapide. Ci si accorge della presenza dell’acqua anche quando non è visibile perché la si avverte allora che si scorge una vegetazione più lussureggiante. Le diverse forme che assume l’acqua determinano distinti effetti paesaggistici. I torrenti rendono la natura mobile, movimentata, mentre le superfici uniformi degli invasi smaterializzano la realtà topografica dei luoghi suggerendo una sensazione di indeterminatezza.

L’acqua, in ogni sua manifestazione, rimanda a significati ancestrali caricando di mistero i paesaggi; essa introduce nei paesaggi, specie in quelli monotoni, una microscala che li vivacizza. Le sponde dei fiumi e dei laghi poi sono segni forti nel paesaggio sia quando definiscono con chiarezza i contorni dell’acqua e della terra sia quando sono oscillanti lasciando nell’osservatore una sensazione di incertezza. Per il loro indubbio valore occorre proteggere i corsi d’acqua che oggi sono tutelati solo indirettamente perché per la loro salvaguardia bisogna fare appello a normative relative alla difesa di particolari specie animali o vegetali ad essi connesse oppure alle disposizioni per la conservazione del paesaggio. La particolare sensibilità delle fasce fluviali porta a pensare che sono indispensabili misure di protezione speciali e non quelle ordinarie definite dai piani paesistici, ma soprattutto azioni urgenti per migliorare la qualità delle acque.
Le forme dell’acqua

L’acqua è l’elemento fluido per eccellenza che, quindi, cambia incessantemente di forma mutando il suo aspetto in relazione al recipiente che la accoglie. Pertanto parlare di «forma dell’acqua», è in un certo senso provocatorio, volendo attribuire all’acqua la forma che, invece, gli deriva dal contenitore in cui si trova.Possiamo distinguere, seguendo questo ragionamento, 2 tipi distinti di “forma” dell’acqua:
la forma naturale e la forma artificiale. Nella prima tipologia facciamo rientrare le immagini dell’acqua così come si presenta in natura. Nel Molise, regione che presenta un territorio estremamente variegato per caratteristiche morfologiche e climatiche, si ritrovano facilmente, basta osservare con attenzione i luoghi, i diversi volti che l’acqua assume nell’ambiente. A seconda delle condizioni meteorologiche la vediamo riflettere le nuvole
o risplendere con il sole oppure semplicemente rispecchiare il blu del cielo. Ciò si ha quando la superficie dell’acqua è calma e perciò scura come succede nei bacini idrici quali quello di Castel San Vincenzo o il lago stagionale di Civitanova. Qui si può notare che l’acqua, che è definita incolore, ha un colore che in questo caso è il verde il quale è il colore delle fronde dei rami dei faggi al suo contorno.

A determinare una diversa immagine dell’acqua è la profondità del corpo idrico, sia esso fiume o lago; l’altezza dell’acqua insieme alla sua trasparenza, che da noi in genere è elevata, e al tipo di fondo, se melmoso, ghiaioso, ecc. caratterizza il suo aspetto. Ritorniamo alle rive evidenziando che quando esse sono boscate la superficie dell’acqua è oscurata, ma l’effetto è diverso se si tratta di un bosco compatto o di gruppi di alberi come i salici e i pioppi che, poiché alti lasciano filtrare la luce del cielo (alcuni tratti del Biferno). È importante parlare delle rive in quanto questi sono i punti più privilegiati dai quali osservare l’acqua: se la riva è allo stesso livello del pelo dell’acqua
(ad es. a Canneto lungo il fiume Trigno), avvicinandosi il terreno gradatamente alla sponda, ci si può riflettere comodamente, mentre ciò è impossibile quando il corso d’acqua lo guardi dall’alto (magari da uno dei tanti ponti storici molisani). Si è ritenuto di dover sottolineare la valenza della riva perché non si può disgiungere un quadro visivo dal luogo da cui può essere goduto. Passiamo adesso all’altro tipo di “forma” dell’acqua di cui si è detto all’inizio che è la forma artificiale. Questa è legata principalmente alle fontane che nella nostra regione sono moltissime e distinguibili in diverse categorie per caratteristiche architettoniche e per modo di trattamento dell’acqua.
Qui si avverte la contrapposizione tra l’acqua che è un elemento irregolare e fluido e i connotati geometrici del manufatto edilizio della fontana. Oltre alle fontane più antiche (quella di Cercepiccola, quella di Bonefro, ecc.) che sono sicuramente «cose di interesse storico» vi sono le fontane costruite nel secolo scorso nelle piazze di tanti paesi molisani per celebrare l’acqua portata da nuovi acquedotti. In questo periodo oltre alle fontane monumentali vi sono pure tipologie particolari di fontane che anch’esse si legano alla modernizzazione della nostra società e sono le fontanelle in ghisa sostenute dagli stessi pali che sorreggono i

lampioni dell’illuminazione pubblica (una si trova a Busso e un’altra a Vinchiaturo): il palo, perciò, tiene insieme i due principali simboli del progresso civile. Vi sono vari modi di concepire le fontane, dalle fontane da muro (a Vastogirardi o a Boiano o a Mirabello) alle fontane su piedistallo (a Sepino in piazza Nerazio Prisco), alle fontane con getto dal basso verso l’alto (ad Agnone in piazza Plebiscito), alle fontane con getto dall’alto verso il basso (a Pettoranello), alle fontane con vasche in successione (a Civitanova). Per quanto riguarda le fontane con getto, l’acqua può essere spruzzata da un solo ugello (come a piazza Municipio a Campobasso dove lo spruzzo viene attivato solo nelle occasioni solenni) o da più (ad esempio nelle fontane, tutte identiche, regalate ai Comuni dalla Cassa per il Mezzogiorno in occasione dell’ inaugurazione dell’acquedotto).
Queste fontane sono composte dai getti e da un bacino in cui si raccoglie l’acqua il quale può avere forma circolare, poligonale, stellata, ecc. Quando l’acqua cade dall’alto essa può sgorgare da figure animali come le bocche dei leoni che stanno nella fontana posta nel giardino pubblico a San Massimo. A volte l’acqua sembra scaturire da rocce che simulano le sorgenti: è il caso della vasca di Villetta Flora a Campobasso dove si ha l’associazione di massi rocciosi, che richiamano le montagne, e di acqua, i due principali componenti di un paesaggio. Siamo di fronte, in definitiva, ad una fontana naturalizzata. Sempre a Campobasso, questa volta nel giardino cosiddetto del «Distretto», vi è un diverso tipo di significato della vasca che sta quasi al livello del terreno e perciò assomiglia ad un’aiuola, seppur d’acqua, omogeneizzandosi al «parterre»
d’erba che sta tutt’intorno. Questa fontana come altre già citate è ornata da una statua che si rispecchia nell’acqua. L’acqua e la scultura intensificano il loro effetto l’un con l’altro; la scultura aumenta la drammatizzazione spaziale che già l’acqua di per sé produce nell’ambiente urbano.


In conclusione, l’acqua ha aspetti diversi che nel loro insieme ci rivelano la poliedricità della sua forma, che è in relazione anche ai molteplici usi che facciamo di essa. L’acqua infatti è presente in ogni momento della vita essendo un elemento indispensabile per l’esistenza umana, che quindi va tutelato così come intende fare l’ONU che a questo scopo ha proclamato l’anno 2003 l’Anno Internazionale dell’Acqua, assumendo in questa occasione impegni per una salvaguardia continuativa di questo elemento.
L’elemento liquido nei vari quadri visivi

Il paesaggio, nella sua estrema essenza, è formato da montagne, pianure, coste, colline e fiumi. Pertanto i corsi d’acqua sono uno degli elementi naturali che stanno alla base della struttura del paesaggio. I fiumi molisani sono diretti alcuni verso l’Adriatico, cioè il Biferno, il Trigno e il Fortore, e altri, il Volturno, verso il Tirreno. Nel versante adriatico, che è poi quello che occupa la maggiore superficie del territorio regionale, i fiumi seguono la direttrice ovest-est e quindi sono trasversali rispetto allo sviluppo prevalente della Penisola italiana il quale, invece, ha un andamento che va da nord a sud. Spostandosi dal settentrione al meridione, quindi secondo l’asse longitudinale della nostra nazione, abbiamo che i fiumi che sfociano nel mare adriatico dividono il Molise in ampie vallate parallele fra loro. Tali valli, che occupano la gran parte della regione, sono centrate su questi fiumi i quali rappresentano il sistema idrografico principale a cui confluiscono una serie continua di corsi d’acqua minori secondo uno schema a pettine. I fiumi, sempre quelli che sversano nell’Adriatico,
costituiscono i confini fisici con le regioni limitrofi alla nostra: il Trigno con l’Abruzzo, il Fortore, o almeno il suo bacino, con la Puglia. I corsi d’acqua sono un sicuro confine naturale perché le fasce fluviali sono state per secoli poco abitate. Infatti i paesi non osarono collocarsi vicino ai fiumi né, sempre a causa del pericolo di inondazione, si è potuto praticare un’agricoltura stabile. In definitiva le aste fluviali sono circondate per tutto il loro percorso da ambiti quasi deserti. Il Biferno, a differenza degli altri fiumi molisani, appartiene interamente alla nostra regione, da quando nasce sull’Appennino fino a quando sbocca nel mare. Nella valle del Biferno arriva l’acqua di un enorme bacino montano rappresentato dal massiccio del Matese. Gli abbondanti apporti idrici matesini condizionano i flussi stagionali del fiume che sono molto variabili. Lo scioglimento delle nevi della montagna insieme alle piogge che in questo periodo sono abbondanti nella tarda primavera ingrossano il corso d’acqua provocando anche piene. Il fiume modifica totalmente il suo aspetto in relazione alla quantità d’acqua.
Il Biferno è stato oggetto di tanti brani della letteratura molisana poiché esso ha stimolato l’immaginazione collettiva. Nella parte bassa del Molise il Biferno ha il tipico andamento di un fiume di pianura con un percorso meandriforme, quasi che voglia tardare a raggiungere il mare. Il fiume solcando questa fascia pianeggiante subisce una serie di variazioni del suo corso con diverse anse abbandonate in quanto separate dalla corrente.


È il fiume stesso ad aver formato questa piana depositando materiali sempre più fini secondo il principio che più il fiume cammina verso la foce più diminuiscono il peso e le dimensioni delle particelle trasportate. A modificare la forma del Biferno in questo ambito pianeggiante è stata l’azione di bonifica compiuta nella prima metà del secolo scorso. La pianura paludosa è stata oggetto di una vasta sistemazione idraulica e di una radicale riorganizzazione poderale. Pertanto si tratta di un paesaggio plasmato dall’uomo, di un ambiente completamente trasformato o, come si diceva un tempo, redento. Nonostante ciò questi luoghi conservano una fisicità non artificiale, ma una sorta di naturalità conferita loro dalla ricchezza d’acqua. Su questa disponibilità idrica oltre che sulla fertilità dei suoli si basa la sua ricchezza agricola che ne fa una delle più importanti aree produttive della nostra regione. Scontata conclusione della pianura bassomolisana è la striscia litoranea; anche qui è l’acqua a condizionare il paesaggio e non solo per la presenza del mare. Insieme ai canali vi è un lembo di territorio a vegetazione palustre in località Ramitelli di Campomarino che può essere considerato un elemento superstite dell’antico assetto dei luoghi connotato dalla presenza di stagni (vedi la frequenza di toponimi quali Pantano e Padulo). La formazione di un impaludamento è tipica proprio delle coste basse e sabbiose come la nostra

perché qui i cordoni di dune causavano lo sbarramento del corso dei fiumi e perciò determinavano la creazione di stagni. Questi ultimi sono stati distrutti dalla bonifica integrale e di essi rimangono solo residui i quali sono l’habitat ideale specie per gli uccelli. Lasciando ora la parte bassa della regione e tornando alla zona collinare abbiamo oltre ai fiumi principali una lunga serie di corsi d’acqua minori. Si tratta, in genere, di torrenti molto incassati tra i fianchi dei rilievi (si pensi al Succida, al Vallone del Cerro, al Sente, al Rivo, ecc.) passando, a volte, per profonde gole (ad es. il Callora e il Quirino) che essi stessi si sono aperti. Quando il corso d’acqua è incassato è più probabile che il territorio che lo circonda sia ancora allo stato naturale, non essendo appetibile, in quanto scosceso, per l’ubicazione di attività. Può succedere che il torrente nel suo scendere verso valle abbia il proprio corso interrotto da qualche gradino di roccia: in questo caso, come si verifica nello Scaffaturo a Montagano o nel Vallone delle Coste a S. Massimo, si hanno delle suggestive cascate. I morfotipi dei torrenti sono tantissimi e i torrenti oltre ad essere diversi fra loro presentano fisionomie differenti anche lungo il loro corso: partendo dalla parte più alta del corso si hanno canaloni incisi e poi, man mano, valli sempre più larghe e ciò perché i corsi d’acqua aumentano di importanza per il continuo apporto di affluenti secondari (vedi il Verrino).
Un segno fluido nell’immagine paesaggistica
Un altro aspetto significativo del paesaggio molisano, sempre connesso all’acqua, è rappresentato dai laghi. Specialmente il lago artificiale di Guardialfiera si è conquistato il rango di segno caratteristico dell’immagine paesaggistica di questa parte del Molise; ai laghi si associano sentimenti romantici e non c’è niente che attribuisca valore ad un paesaggio più di un lago. Comunque, nella nostra regione non esistono solo i laghi di Occhito e del Liscione, ma vi sono anche alcune altre tipologie di bacini idrici che hanno in comune fra loro il fatto di essere di dimensioni piccolissime. Vi sono laghi stagionali qual’è il lago di Civitanova dove l’acqua scompare in estate inghiottita dalla montagna carsica. Ci sono pure laghi che si riempiono temporaneamente perché pensati come casse di espansione delle piene (finora solo quello di Ripaspaccata al quale si dovrebbe affiancare un altro, gemello del primo, in località Fossatella progettati dal Consorzio di Bonifica di Venafro). Vi sono, poi, semplici specchi d’acqua

privi di immissari ed emissari, quasi asciutti nella stagione calda (lago dei Castrati sulla montagna di Frosolone), bacini realizzati per l’abbeveramento degli animali in alpeggio (in località Sogli nel cuore del Matese), laghetti microscopici nelle cave di argilla (a Busso nell’area estrattiva dell’Italcementi). I laghi veri e propri, dunque, sono unicamente gli invasi del Liscione e di Occhito: quando vennero completati nei primi anni ’70 essi costituirono una novità assoluta nel panorama regionale. Per i molisani vedere una distesa d’acqua pressoché immobile che il vento muove leggermente dovette essere una scoperta. Le oscillazioni
in altezza del lago portano ad avere una incerta divisione tra acque e terre che sono separate da una linea di confine estremamente mossa. Il quadro paesaggistico di tali zone è occupato, data la estesa superficie degli invasi, dalla massa d’acqua conferendo un carattere per così dire fluido all’immagine visiva. Nelle aree oggetto di bonifica, nelle due parti estreme del territorio regionale e cioè ad est e ad ovest, il disegno del paesaggio è dovuto ad una trama sottile fatta di segni regolari, rettilinei. Si legge una orditura geometrica nella suddivisione dei campi coltivati, nella disposizione dei canali irrigui, delle strade interpoderali. Si tratta di una trama esile, ma capillare basata sulla rettilineità degli elementi. Questo sistema di strade, canali di irrigazione e di scolo, di campi che si sovrappone al paesaggio naturale rivela la sua spinta artificializzazione. Un paesaggio dotato di continuità per la regolarità dell’orditura. In prossimità del mare i canali per permettere lo scarico delle acque anche quando c’è l’alta marea hanno bisogno di idrovore, diventate pure esse,

nonostante ora siano in stato di degrado, segni del paesaggio litoraneo. Hanno rischiato di essere trasformati in canali anche i corsi d’acqua che sboccano nel mare; la difficoltà a trovare siti idonei sulla costa adriatica per realizzare porti ha spinto a pensare di sfruttare le foci fluviali per ottenere, previa una loro regolarizzazione, porti-canali (quello industriale sul Biferno, quello turistico sul Trigno). Finora abbiamo analizzato paesaggi in qualche modo dipendenti dall’acqua; pure se non è visibile anche i paesaggi carsici rivelano il loro legame con l’azione dell’acqua. Nelle montagne carsiche che sono il Matese e la Montagnola manca l’idrografia superficiale, ma le grotte, gli inghiottitoi, le doline ci informano sull’esistenza di riserve idriche sotterranee.
In alta montagna l’acqua si manifesta nel paesaggio anche con i segni dell’attività dei ghiacciai in epoche geologiche: presso la cima di monte Miletto e della Metuccia è possibile ammirare due circhi glaciali. Una diversa maniera con la quale l’acqua si manifesta nei quadri paesaggistici è la nebbia che è insieme al ghiaccio o alla neve (stato solido) e al fiume (stato fluido) un altro aspetto che assume l’acqua (stato aereo, come il vapore). Ci sono comprensori, come la piana di Boiano o le vallate dei principali fiumi, in cui la nebbia è presente di frequente, almeno nelle prime ore del giorno. Qui il paesaggio diventa quasi evanescente; i sensi vengono ingannati e le cose appaiono irreali avvolte come sono nella nebbia da cui solo a tratti emerge qualche fabbricato che viene ad assomigliare, anche il più anonimo, ad un castello incantato.
Non sempre i corsi d’acqua, pur presenti in un dato ambito territoriale, possono essere percepiti. Spesso i fiumi sono nascosti da una cortina di salici ed è proprio la presenza di simile vegetazione a denunziarne il passaggio. Neanche i torrenti quando scorrono in valli strette, ed è il caso più frequente, solitamente ricoperte da boschi sono visibili. Un altro schermo alla leggibilità percettiva di un fiume è rappresentato dai suoi argini come succede per il Fortore a valle della diga di Occhito. Queste arginature hanno isolato il fiume dal contesto ambientale circostante e, quindi, non solo visivamente. Bisogna dire, comunque, che la considerevole distanza che intercorre tra i due argini opposti e quindi la consistente larghezza della fascia fluviale permette di ottenere una

evoluzione naturale nonostante siano state ormai compromesse le condizioni originarie (si pensi solo al fatto che gli argini non consentendo il deflusso delle piene sono una causa dei frequenti allagamenti di questa zona a lato del corso d’acqua).

Completamente differente da questo è l’alveo del Trigno che ha un vastissimo greto in cui si hanno continui depositi ghiaiosi. Nel Volturno si vedono isole, o meglio isolotti, fluviali e barre sabbiose. L’alveo del Callora è colmato dai detriti trasportati dalla corrente per cui si presenta interamente ciottoloso. Quando i corsi d’acqua scorrono in pianura essi costituiscono importantissimi corridoi ecologici; qui essi rappresentano i principali elementi di discontinuità, quasi una lunga incisione nel territorio. Gli alvei non sono fatti sempre per ospitare l’acqua, ma anche, quando il corso d’acqua è in secca, per consentire il passaggio delle greggi durante la transumanza: il Rio Bottone nei pressi di Cantalupo coincide con il tratturo Pescasseroli-Candela. L’acqua che per definizione è insapore a volte smentisce questa definizione: nel Molise vi sono diverse sorgenti solforose tra cui c’è quella che veniva sfruttata tradizionalmente nello stabilimento termale dell’Acqua Sulfurea di Isernia.

L’acqua forma una specie di ragnatela nel paesaggio rurale tradizionale dove i confini dei campi sono costituiti in genere oltre che da alberi o da siepi spontanee, da minuscoli fossi. Un indicatore della presenza di un corso d’acqua è rappresentato dai mulini, molti dei quali oggi purtroppo allo stato di rudere, in quanto questi sfruttavano l’energia idraulica; il rapporto tra mulini e corsi d’acqua è reciproco ed esclusivo poiché nei fondovalle, giudicati pericolosi per le attività umane a causa del rischio di inondazione, si insediavano unicamente i mulini. Il sistema idrografico e il sistema insediativo vanno letti congiuntamente: i centri abitati si sono localizzati sulle alture anche per evitare le esondazioni delle acque e solo dopo la regimazione dei corsi d’acqua si è avuta la discesa a valle degli insediamenti.

Il Biferno in Boiano
Un fiume ha un principio, un corso e un termine, sono queste usualmente le parti in cui viene suddiviso. Per quanto riguarda il Biferno il suo inizio vero e proprio lo si fa scattare dal ponte della Fiumara dove avviene la congiunzione tra i tre rii che provengono dalle altrettanto tre sorgenti, Calderari, Pietre Cadute e Rio Freddo e dove si verifica anche l’innesto in esso del Rio Bottone nel quale poco prima si è riversato il Callora. Il primo nasce alle pendici della Montagnola e il secondo sul Matese; la loro portata a regime non è di certo rapportabile a quella, singolarmente non solo la loro sommatoria, dei corpi idrici alimentati dalle scaturigini, per il Calderari è quella di Maiella, poste al limitare della montagna matesina nella piana di Boiano e, però, l’apporto di acqua al Biferno è consistente allorché siano in piena.



Il sistema di monitoraggio delle portate dell’asta fluviale ha una prima centralina di sorveglianza posizionata sul ponte sul Callora che sta all’ingresso dell’abitato di Roccamandolfi; il salto di quota tra la sorgente del Callora e la sottostante pianura dell’Alto Biferno è notevole per cui a preoccupare è oltre ai quantitativi d’acqua che si riversano a valle l’energia della corsa. Gli idrometri posti lungo l’asta del Biferno sono tarati proprio sullo strumento di misura della quota dell’acqua di Roccamandolfi per determinare il margine di tempo a disposizione prima del sopraggiungere dell’onda di piena. Questo per dire che l’inizio di un corso d’acqua non è cosa facile da stabilire con sicurezza, la piena del Biferno dipende dalla piena del Callora e ciò ne fa un tutt’uno almeno durante un’emergenza idrogeologica;

rimane che il contributo maggiore, nel tempo ordinario, dal punto di vista idraulico è dato dal flusso idrico che fuoriesce dalle falde sotterranee del Matese nel fondovalle. Comunque, va fatto notare che seppure si voglia considerare il Callora non un tributario bensì un prolungamento, una sottospecie di coda del Biferno ciò non incide sul rapporto che Boiano ha con il suo fiume in quanto la congiunzione fra Callora e Biferno avviene al di fuori del perimetro urbano. La cittadina bifernina, peraltro l’unica che possa fregiarsi di tale titolo perché lungo la vallata fluviale non vi sono altri centri abitati, è un po' il capolinea del Biferno, chi segue il suo asse non può andare oltre, dopo c’è la barriera montuosa. Vale la pena ribadire che quello boianese è il tronco primario del Biferno qualora si volesse riconoscere al Callora lo status di ramo dello stesso non di mero immissario. Se, invece, ci si muove in senso opposto Boiano è un nucleo abitativo di transito. Un passaggio facilitato dal fatto che il Biferno, prima di prendere la sua forma compiuta, con o senza il Callora per rimanere alla discussione precedente, si suddivide in più bracci, uno per episodio sorgentizio, dei quali due, Callora e Pietre Cadute, stanno all’interno dell’unità insediativa; nonostante siano copiose le fonti da cui nascono essi non sono difficili da valicare
cosa che, invece, diventa ardua quando si uniscono fra loro tanto che il futuro re di Napoli Franceschiello in visita al Molise dovette scendere dalla carrozza per superare il fiume. Di solito un corso d’acqua funge da confine tra comuni, regola alla quale soggiace pure il Biferno ma solo quando esce dall’agro boianese. Quando ci sta dentro non dà fastidio perché il Calderari e il Pietrecadute non sono soggetti ad ingrossamento e quindi non c’è pericolo di straripamento essendo originati da fonti perenni e, per il nostro argomentare, costanti. Essi, in particolare il Calderari che è tangente a lungo all’agglomerato edilizio e in parte ne è stato inglobato, scorrono in maniera tranquilla e la loro presenza arricchisce il panorama cittadino. Una città è più bella se possiede un fiume e solamente Boiano ce l’ha nel Molise. I benefit che il Biferno procura a Boiano sono molteplici, di tipo economico, paesaggistico e pure ricreazionale. Si può andare in canoa sia perché il corso d’acqua cammina nel piano e quindi cammina piano sia perché il flusso idrico è costante e quindi non ci sta la minaccia di piene sia perché è perenne per cui si può vogare tutto l’anno sia perché non vi sono ostacoli, mancano le briglie essendo in pianura, sia perché la corrente non è turbolenta sempre per la questione della piattezza.
Per quanto riguarda quest’ultimo punto è da aggiungere che lungo tutto il Biferno non si può fare rafting mancando le rapide e ciò, da una parte, è un limite perché non attrae chi ama cavalcare le onde con l’imbarcazione e, dall’altra parte, è un vantaggio perché la placidità delle acque consente la pratica del canoing a un gran numero di persone. Allargando lo sguardo si vede che il Biferno, pure prima della captazione delle sorgenti che ha sottratto un quantitativo idrico considerevole al fiume, non è navigabile se non con le canoe e neanche nella sua interezza per via della diga del Liscione. Considerazione a lato è che il Biferno oggi a differenza che nel passato è sempre percepibile in quanto la Bifernina passa costantemente al suo fianco venendo a configurarsi come una sorta di lungofiume; essa assomiglia un po' ad una passerella poiché sopraelevata grazie ai viadotti che, a tratti, sorreggono il piano carrabile. A volte i viadotti vanno da una sponda all’altra per impiantare i piloni sul sedime maggiormente idoneo, non per collegare le rive e così da qui, senza distrarsi dalla guida, si può osservare dall’alto l’alveo fluviale e le eventuali canoe che lo solcano.
I principali problemi dei nostri corsi d’acqua

Le dighe sono state immaginate anche ai fini della protezione civile, svolgendo esse la funzione di arrestare le piene. La diga di Ripaspaccata che insieme a quella in progetto in località Fossatella servono a proteggere la piana di Venafro sta esaurendo la sua capacità di ritenuta delle acque e di evitare così le inondazioni perché va interrandosi. Le dighe, accanto ai vantaggi indicati hanno degli effetti negativi, dal mancato trasporto solido necessario per il ripascimento delle spiagge alla modifica del microclima delle valli occupate dagli invasi alla riduzione della portata dei corsi d’acqua sotto le dighe garantendo solo il deflusso minimo vitale. Va detto, a proposito delle dighe, che se la ricchezza d’acqua significa la prosperità di un paese essa, però, può anche tradursi in catastrofi come è successo nel gennaio del 2003 con l’allagamento della piana del Biferno. I problemi dei fiumi non sono, comunque, solo quelli legati alle dighe, ma ve ne sono anche altri. Tra questi vi sono quelli prodotti da pesanti interventi di difesa spondale realizzati in passato, l’esempio più vistoso è il torrente Cigno, i quali impongono la redazione di progetti di rinaturalizzazione del corso d’acqua.
Le dighe, che nel Molise abbondano (Chiauci, Arcichiaro, Liscione, Occhito, Castel S. Vincenzo), sono state definite un simbolo della conquista della natura. Infatti le dighe provocano profonde trasformazioni dei fiumi, i quali sono tra le componenti più significative dell’ambiente. I primi invasi della nostra regione sono nati per lo sfruttamento idroelettrico (Rocchetta al Volturno e Castel San Vincenzo); in seguito l’esigenza di costruire dighe è legata all’irrigazione (Occhito e Liscione) a cui si è aggiunto lo scopo potabile tanto che una parte del basso Molise beve oggi l’acqua del lago di Guardialfiera. Per quanto riguarda l’impiego in agricoltura delle riserve idriche accumulate negli invasi non sono state ancora svolte indagini per vedere quali benefici hanno portato le dighe.

Un diverso problema è quello delle derivazioni d’acqua sia quelle piccole, in genere per l’agricoltura (denominate attingimenti), sia quelle grandi per uso idroelettrico per le quali le concessioni sono pluridecennali. Ciò provoca, da un lato, l’ingabbiamento dell’acqua in stretti canali e, dall’altro, limita il potere della programmazione regionale per la quasi perpetuità delle concessioni.

È difficile, tenendo conto di queste considerazioni, immaginare una pianificazione in chiave naturalistica del corso d’acqua nonostante il regime proprietario dei fiumi che è demaniale; la continuità della fascia fluviale e la sua appartenenza al patrimonio pubblico permetterebbero di pensare ad ipotesi di parco naturale. I fiumi costituiscono corridoi ecologici per la fauna, rappresentando un elemento di connessione tra gli habitat e così impedendo l’insularizzazione degli ecosistemi. Seppure non è possibile in molti casi prevedere parchi naturali le fasce fluviali vanno sempre vincolate per garantire la difesa del suolo, sia quando il fiume scorre in collina dove causa erosione sia quando solca la pianura per il rischio di esondazione. In assenza di azioni di pianificazione naturalistica un aiuto alla protezione delle aste fluviali viene da norme di salvaguardia emanate dalla Regione di carattere generale, come quelle che tutelano la fauna, in cui sono compresi i pesci, o i boschi, tra i quali è inclusa la vegetazione ripariale. Infine, occorre aggiungere che la tutela si deve estendere dal corso d’acqua al paesaggio circostante. Le vallate fluviali sono attraversate dalle principali arterie stradali e cioè la Bifernina e la Trignina le quali con il loro passaggio attribuiscono una nuova centralità alle pianure prossime ai fiumi. Questi paesaggi sono ormai dominati da capannoni, viadotti e dagli imponenti svincoli
tra i quali primeggia quello di Casacalenda. I fiumi sono stati considerati minacce per l’uomo non solo per le esondazioni (che avvengono in pianura), ma anche per l’erosione che dà luogo alle frane (che avvengono sui rilievi). L’erosione nell’alveo è più forte lì dove ci sono rocce di più debole compattezza, come avviene lungo il corso del Biferno con la creazione dei calanchi, caratteristiche emergenze geomorfologiche del paesaggio molisano. Forse la più pericolosa azione dell’acqua, dal punto di vista della stabilità del territorio, è la formazione di coni di deiezione nel punto di confluenza di corsi d’acqua allo sbocco delle valli; ciò è preoccupante quando vi si installano sopra nuclei abitati (vi è qualche caso nel Molise) perché essi sono soggetti ad elevata sismicità in quanto costituiti da materiale sciolto. Il fiume non è esclusivamente una minaccia, ma anche un elemento di attrazione: sul greto fluviale si fa pesca sportiva, si pratica il birdwatching, si sosta per scampagnate, mentre nell’alveo attivo ci si può fare il bagno e, quando il livello delle acque lo permette, andare in canoa. In molti corsi d’acqua molisani è possibile esercitare queste attività ricreative. Per permettere che anche in futuro possa essere possibile godere dell’ambiente fluviale bisogna adottare una valida politica di salvaguardia.

Le minacce per l’ambiente fluviale e, di conseguenza, per il suo paesaggio sono molteplici. Come rivelano alcuni grandi frantoi sulle rive si scava la sabbia nell’alveo, anche se va detto che il prelievo oggi è molto minore che nel passato perché è stato limitato riducendolo solo a quello indispensabile per le esigenze idrauliche. Vi sono, inoltre, rischi di inquinamento delle acque legati a scarichi non controllati che è più forte nei mesi estivi quando vi è una riduzione delle portate dei fiumi e, perciò, una minore capacità di diluizione delle sostanze inquinanti. Un danno paesaggistico è sicuramente quello derivante dalle infrastrutture viarie che si sviluppano nei fondovalle del Trigno e del Biferno con, a volte, i piloni impiantati proprio nell’alveo. Altre alterazioni dell’ecosistema fluviale sono costituite dalle canalizzazioni e, in genere, da tutte le opere idrauliche che hanno comportato pure, in molti tratti, la scomparsa della vegetazione spondale

Il Biferno come aorta del sistema idrografico del Molise

Il Biferno nasce ai piedi del massiccio carsico del Matese. Qui al di là dei pochi torrenti, i quali poi affluiscono nel nostro fiume, che hanno origine in alto determinando la formazione di conoidi di deiezione su cui sorgono diversi centri abitati (S. Massimo con il vallone delle Coste, Campochiaro con il torrente Valle) l’acqua viene dai bacini idrici sotterranei. La ricchezza d’acqua del Biferno, ora convogliate in parte in Campania, deriva dal fatto che esso è alimentato da questo complesso calcareo. Il Matese ha il ruolo di immagazzinatore di acque che fuoriescono in basso, mentre in montagna le fonti idriche sono limitate ed esse vengono riservate, tradizionalmente, per l’allevamento del bestiame e per la lavorazione dei rinomati latticini della zona la quale richiede abbondanza di acqua corrente. L’assenza di nevicate di quest’anno sul Matese, frutto dei cambiamenti climatici in corso, fa presagire una riduzione delle portate del fiume. Le principali scaturigini del Biferno stanno a Boiano che per la presenza di questa fondamentale risorsa naturale e per la sua ubicazione in pianura (è l’unico insediamento dell’area matesina posto nel piano) ha la vocazione di capoluogo del comprensorio manifestatasi fin dall’epoca sannita. Il Biferno inizia così la sua corsa verso il mare (la quale avviene tutta in territorio molisano) che è celere perché il tragitto è diretto, essendo ortogonale al rilievo montuoso da cui sgorga. A fiancheggiare il percorso fluviale vi sono numerose emergenze geologiche

le quali, spesso, sono state incluse tra i Siti di Interesse Comunitario. Vi sono ai lati del Biferno grandi massi su cui si ergono torrette di avvistamento (a Baranello e a Oratino) oppure spuntoni rocciosi non scalzati dalla corrente delle acque (es. Morgia dell’Eremita), le quali subitamente emergono nel paesaggio contraddicendo l’andamento dolce delle colline. Ci sono, poi, i calanchi che sono incisioni delle argille (i Calanchi di Castropignano, di Lucito, i Calanchi Manes, ecc.) solcate da piccoli rivi i quali provocano la loro continua erosione. Le pendici argillose retrocedono, così, costantemente; gli smottamenti determinano lamine sottili che separano calanchi vicini. Sui calanchi l’unica vegetazione che si installa è si tipo arbustivo e ciò li rende luoghi inospitali. La sterilità del suolo che forma i calanchi impedisce l’utilizzazione agricola, ma li trasforma in ambiti interessanti dal punto di vista ambientale perché la natura è indisturbata. Il colore grigiastro dei calanchi è simile a quello delle zone a frana.
Il dissesto idrogeologico preoccupa più per la viabilità che per gli insediamenti abitativi; il movimento franoso più grave è quello di località Covatta che ha costretto l’interruzione per lungo tempo della Bifernina. Le frane alla stessa maniera dei calanchi e delle rocce calcaree isolate possono essere considerate segni paesaggistici tipici. Un altro fatto significativo della vallata del Biferno è la ricchezza del patrimonio boschivo, ridotto in parte dallo spaventoso incendio dell’estate dell’88. In alcuni pezzi, come tra Petrella e Lucito, la superficie boschiva interessa le sponde del corso d’acqua integrandosi la boscaglia ripariale con la vegetazione arborea che ricopre il versante. In altri tratti la presenza di alberi è limitata alla fascia ripariale e ciò avviene principalmente negli ambiti di pianura dove l’attività agricola intensiva ha eliminato le antiche distese boschive: è esemplare quello che è accaduto al Bosco Tanasso del quale oggi è rimasto solo il toponimo. Siamo già a valle della diga del Liscione dalla quale l’acqua del Biferno esce spurgata del trasporto solido che si deposita nel fondo dell’invaso.



Un altro fattore di turbamento dell’ambiente fluviale è stato la costruzione della fondovalle negli anni ’70. In precedenza erano poche le opere realizzate nell’alveo perché i ponti erano rari, privilegiando la viabilità i crinali (le due strade statali storiche, la Sannitica e l’Adriatica, passano sulle dorsali che delimitano la valle del Biferno ai due opposti lati) dove non c’è necessità di realizzare ponti. Siamo ormai in prossimità della costa: prima di inoltrarsi in questa pianura il Biferno accoglie il Cigno, che è il suo ultimo affluente, e proprio alla loro confluenza si hanno i più frequenti straripamenti. L’evento alluvionale più disastroso è stato sicuramente quello del gennaio 2003 il quale ha rischiato di provocare danni ad alcune importanti fabbriche chimiche installate nel nucleo industriale di Rivolta del Re. Nella zona litoranea il Biferno, ormai rettificato, appare alla stregua di uno dei tanti canali artificiali voluti per favorire lo sviluppo dell’agricoltura nei quali è deviata parzialmente l’acqua del fiume. Dalla fine del XIX secolo si è iniziata una grande azione di bonifica con il prosciugamento di quest’area un tempo
Il fiume non sedimenta più nella vasta piana costiera che è formata da materiale alluvionale; alla stessa maniera i meandri, i quali sono la prova più evidente del processo di sedimentazione, hanno perso la loro funzione originaria per cui, con il cosiddetto «progetto Biggiero», si è tentato di rettificare le anse fluviali. La diga, pertanto, ha avuto conseguenze non solo sull’aspetto paesaggistico dell’area o sul clima, l’acqua immagazzinata nell’invaso fungendo da moderatore climatico, ma pure sulla dinamica del fiume.

acquitrinosa a causa dell’impaludamento del Biferno. Vennero realizzati alcuni impianti idrovori per il sollevamento delle acque basse che non sono solo quelle del fiume Biferno, ma anche quelle di diversi corsi d’acqua minori che sfociano direttamente a mare (Sinarca, Rio Salso, Rio Vivo e così via) senza costituire affluenti del primo che, è privo di significativi rami secondari se si eccettuano il torrente Cervaro, il Rio Maio, il Quirino e il Callora.

La qualità dell’ambiente per la qualità delle acque
È necessario proteggere le sorgenti che scaturiscono dalla montagna del Matese, tra le quali le principali sono quelle del Biferno in quanto da esse vengono alimentati acquedotti tanto molisani che campani. L’impegno deve essere quello di garantire la qualità di quest’acqua preservando la montagna dai rischi di inquinamento e ciò al fine di fornire disponibilità idriche qualitativamente elevate per i vari usi tanto nel territorio regionale che nelle zone contermini. Un’acqua “sana”, infatti, permette la conservazione dell’ecosistema del fiume se, di certo, viene assicurato contestualmente il “minimo deflusso vitale” stabilito per legge (1 metro cubo al secondo per il Biferno); tenuto conto delle particolari caratteristiche del comparto industriale molisano dove è forte il settore alimentare, l’acqua deve essere di qualità perché essa viene incorporata nei prodotti alimentari o, comunque, viene in contatto con questi durante le varie fasi del ciclo produttivo.



dalle quali devono differire solo perché non vengono imbottigliate, ma escono direttamente dal rubinetto di casa. Raggiungere questo traguardo significa prevenire qualsiasi forma di inquinamento della montagna, le quali prima o poi si traducono in inquinamento delle acque sia superficiali che sotterranee. Le possibili fonti di inquinamento possono essere distinte in puntuali (la presenza della stazione sciistica di Campitello e l’abitato di Civita Superiore) e diffuse; tra queste ultime distinguiamo gli inquinamenti biologici (gli allevamenti) e quelli chimici (fertilizzanti agricoli e sale antigelo sulle strade di montagna). Il problema dell’inquinamento per le acque sotterranee come sono queste carsiche (il Matese è interamente carsico) riveste una particolare gravità (per la difficoltà di risanamento una volta inquinate dati i lunghi tempi di ricambio dovuti ai meccanismi di circolazione delle acque nel sottosuolo) e perciò è necessario il massimo sforzo nella prevenzione dall’inquinamento. Il mantenimento dei livelli
Anche la nostra agricoltura, almeno quella che si va indirizzando verso le produzioni biologiche, ha bisogno di acqua di irrigazione priva di organismi patogeni nocivi per la salute umana e ciò è valido in particolare per le verdure e gli ortaggi da mangiare crudi piuttosto che per le colture arboree e per il grano. Per quanto riguarda l’acqua da bere essa non deve essere solo potabile, ma deve essere anche gradevole, trasparente e senza torpidità ed, in effetti, l’acqua del Matese già lo è: tutte le acque che scaturiscono da questa montagna carsica e non solo le acque minerali (di Castelpizzuto e di Sepino). L’ambizione deve essere quella di rendere tutte le acque del Matese appetibili per il consumatore alla stregua delle acque minerali

qualitativi attuali delle acque del Matese comporta pertanto la tutela di questa montagna. Ciò è possibile dando attuazione ai principi della “Carta europea dell’acqua”.
Si tratta di un documento approvato dal Consiglio d’Europa nel 1968 che costituisce una “raccomandazione” per gli Stati membri, non tenuta sempre presente nelle politiche di utilizzazione delle risorse idriche. Seppure sono trascorsi oltre 40 anni dal varo di questo importante documento, esso, poiché non è ancora pienamente attuato, rimane di grande attualità. Occorre basare l’azione di valorizzazione del patrimonio idrico agli indirizzi fondamentali sanciti in questa Carta mettendo a punto efficaci strategie di salvaguardia di questo bene, in linea con le finalità della Carta europea dell’acqua. A cominciare dal punto in cui la Carta sottolinea che “la salvaguardia dell’acqua implica uno sforzo importante di ricerca” quindi con studi di settore.

Un altro punto al quale si deve dare risposta è quello che recita: «le risorse idriche devono formare oggetto di inventario»; è indispensabile una ricognizione delle maggiori sorgenti presenti nell’area del Matese. È fondamentale il punto della Carta nel quale viene espressa la considerazione che «alterare la qualità dell’acqua significa nuocere alla vita dell’uomo e degli altri esseri viventi». Per raggiungere l’obiettivo della tutela la Carta indica la necessità della «conservazione di una copertura vegetale appropriata, di preferenza forestale» poiché essa «è essenziale per la conservazione delle risorse idriche». Pertanto salvaguardare il manto boscoso del Matese ed effettuare interventi di restauro ambientale diventa un obiettivo primario che obbliga oltre che a definire norme per la conservazione dell’ambiente anche a promuovere lavori di riqualificazione. Per quanto riguarda quest’ultimo punto il quale richiede l’investimento di ingenti risorse finanziarie tanto per la compensazione delle misure di limitazione delle attività antropiche nel bacino di alimentazione delle sorgenti, cioè nel comprensorio matesino, quanto per l’esecuzione di opere di presidio ambientale, è necessario lo sforzo congiunto delle varie collettività che si debbono approvvigionare di quest’acqua la quale, secondo quanto riconosce la Carta « è un patrimonio comune il cui valore deve essere riconosciuto da tutti ».
Le prospettive turistiche dei fiumi e non solo

Non sono mai state pubblicate monografie sul Biferno né su altri fiumi molisani, neanche documentari dedicati o non so che per pubblicizzare le bellezze di alcuno dei corsi d’acqua nostrani. Le pubblicazioni servirebbero a far innamorare le persone di queste preziose presenze nel paesaggio del Molise. Se ci si appassiona di un luogo ci si adopera a mantenerlo integro. Attraverso la fotografia, la pittura, la letteratura e anche il mezzo cinematografico si riesce ad incrementare l’interesse della popolazione verso tali significative componenti naturalistiche le quali vanno tutelate e valorizzate. La loro valorizzazione potrebbe stimolare la nascita di un turismo per così dire fluviale, cosa che è presente al Nord della Penisola e che da noi appare molto al di là da venire. Per via della Bifernina che gli passa accanto il Biferno viene occasionalmente frequentato, in passato

anche da bagnanti vedi la spiaggetta di Bivaro in comune di Oratino. Sono sempre visite giornaliere, non dei soggiorni con pernottamento, magari in qualche struttura ricettiva presente sulle sue rive, prendi l’antico albergo Buongusto sorti, alla stregua dei motel, principalmente per offrire ospitalità notturna ai viaggiatori che percorrono la principale arteria di comunicazione della regione. Non mancano, invece, ristoranti a lato del
Biferno molto apprezzati, dotati peraltro di aree ricreazionali attrezzate vicino alla corrente fluviale, si cita a questo proposito la struttura ristorativa de La Piana dei Mulini. Le attività ristorative, pure quelle presenti nel fondovalle fluviale non servono, comunque, a tavola pesci pescati nel Biferno, bensì provenienti da impianti di acquacoltura, il quantitativo ittico prelevabile dal fiume sarebbe insufficiente e, peraltro, mancano pescatori professionisti, ci si dedica alla pesca esclusivamente per hobby. È ovvio che una gita sul Biferno non permette di conoscere tale componente paesaggistica nella sua interezza, si riesca a coglierne qualche frammento. È vero anche che le specie vegetali presenti sulle rive sono uguali in tutta la sua lunghezza; si tratta di un’associazione floristica denominata nel programma europeo Natura 2000 Galleria di Salici e Pioppi e costituisce un classico esempio di vegetazione azonale.

Nel Basso Molise dove in agricoltura predomina l’orientamento monocolturale gli unici lembi di naturalità sono relegati sulle sponde delle aste fluviali le quali assolvono al ruolo di corridoio ecologico. Nel Medio Molise il Biferno è stato oggetto di una proposta di area protetta che poi non ha trovato attuazione coincidente con la fascia spondale dello stesso, rientrante nella classificazione dei parchi lineari, una fattispecie di parco particolare che si addice bene anche ai tratturi strisce di terreno di un certo spessore, estese e continue proprio come un fiume.
Con maggiore frequenza di una pista tratturale i fiumi, però, nel loro svolgimento sono caratterizzati da momenti singolari. Li citiamo a caso, senza seguire un ordine preciso sia in riguardo al segmento interessato del sistema fluviale sia alla ragione della singolarità. Incominciamo dal corso d’acqua posto alla latitudine superiore, il Sangro il quale all’altezza di S. Pietro Avellana venne rettificato e tale operazione, il taglio dell’ansa fluviale ha comportato che un pezzettino di suolo molisano ricompreso nella golena si trovi ora al fianco del fiume che per il resto è territorio
abruzzese; il bosco planiziale che ricade nell’ex area golenale avente il toponimo estremamente significativo oltre che evocativo di Isola di Fonte della Luna è una superficie boscata igrofila, cioè gli alberi hanno i piedi nell’acqua, e ciò lo ha fatto designare quale Riserva Naturale. Una rettificazione dell’asse ha subito pure il Biferno nelle immediate vicinanze dello stabilimento ex Fiat per permettere il rapido deflusso, il fiume va più veloce se segue una linea retta, ed evitare così l’inondazione della zona industriale. Sempre per fronteggiare le piene e sempre sul
Biferno, adesso in corrispondenza di Busso alcuni decenni fa fu costruito un ponte in cui il piano carrabile ha le arcate di sostegno invece che sotto sopra, quindi è un antesignano dei ponti sospesi e ciò, cioè l’assenza di pile è per facilitare il defluire delle acque. Il Volturno nella piana di Venafro presenta un’eccezionalità che è rappresentata dalla zona umida delle Mortine un tempo riserva reale di caccia e ora, al contrario, naturalistica per la ricchezza di selvaggina. Costituiscono di certo dei punti eccezionali le foci dove è pronosticabile, a seguito dei cambiamenti climatici che porteranno per via dello scioglimento dei ghiacciai all’aumento del livello del mare, l’ingresso di acqua marina nel tratto finale dei fiumi.

Costituiscono discontinuità nell’andamento dei corsi fluviali gli innesti degli affluenti. All’incontro con i tributari avviene evidentemente il mutamento del regime della corrente del fiume in cui sversano. Le aste secondarie trasformano l’asta principale. Ci soffermiamo sul deposito solido nel letto fluviale che si modifica oltre ad accrescersi, in relazione ai suoli che il corso d’acqua incontra nel suo incedere verso la foce, trascinando particelle sottratte ai versanti posti lungo il suo percorso, ma cambia pure a causa dei detriti trasportati dagli affluenti.

La varietà dei materiali, pietrosi e terrosi, portati con sé è riscontrabile nelle piastrelle a base cementizia realizzate un tempo da diverse industrie del settore ceramico, vedi quella della fabbrica Marmi Rossi sul Trigno, i granigliati per pavimentazione fatti con inerti fluviali. L’intersezione con gli affluenti determina la formazione di parcelle di terreno pianeggiante a seguito dell’accumulo degli inerti scivolati a valle depositati dai torrenti, le quali sono di dimensione sufficiente, spesso, a permettere la creazione di Piani di Insediamenti Produttivi come quelli di Fossalto, Castellino sul Biferno, ecc.. È una localizzazione ottimale tanto per la morfologia piatta quanto per la contiguità con la strada di fondovalle.

I fiumi visti per tratti

Dire che ogni fiume ha una specifica personalità non significa dire che il fiume sia uguale in tutto il suo corso, la sua personalità può essere anche l’avere una molteplicità di facce proprio come una persona. Prendi il Trigno che si fa sottile per poter passare nella gola di Chiauci, non lo fa più da quando c’è la diga, e diventa, il suo alveo, ampio quando, dopo l’innesto del Verrino, raggiunge la pianura. È questo un carattere comune alle aste fluviali quello di essere stretto nelle zone montuose e largo nelle aree pianeggianti, non è una peculiarità del Trigno, non è un aspetto saliente della sua fisionomia.

Piuttosto è un connotato distintivo del Biferno il quale nasce nel piano l’assenza del segmento, evidentemente quello iniziale, montano. Il Trigno e il Biferno condividono da un dato momento in poi, il quale per il primo è la località Spondasino in cui incontra il Verrino e per il secondo sta all’altezza di Colledanchise quando lascia la conca matesina in cui nasce, un certo modo di fare che è il progressivo allargamento del letto che va di pari passo con l’allargamento della valle che li ospita il quale è in ambedue i bacini idrografici graduale. In verità non è esattamente così per il Biferno il quale ha un
incedere sincopato dovendo d’improvviso restringersi per superare la strettoia di Ponte Liscione e poi ridistendersi con il suo inoltro nel piatto comprensorio del Basso Molise. Non è una questione di primati da battere la lunghezza del corpo idrico, il Trigno è più lungo del Biferno, la loro estensione sarebbe in fin dei conti rapportabile se si considera solamente il fondovalle, il fondo della valle e non ciò che c’è prima di esso ovvero il pezzo in pendenza che solca un corso d’acqua nella sua fase giovanile perché il Biferno non ce l’ha.
Lo sviluppo lineare di un fiume, lo si ribadisce, non è una faccenda di orgoglio, magari per gli abitanti di quei comuni attraversati da esso, è, comunque un connotato davvero significativo in quanto ci dice della pluralità degli ambienti nei quali si immerge, stiamo parlando di acque, si, in qualche modo, immedesima, si fonde rappresentando, peraltro, di questi ambienti un elemento costitutivo forte, se non decisivo; è da ricordare che la diversità in campo naturalistico è una ricchezza, la famosa biodiversità, per cui in quanti più contesti ambientali differenti si imbatte tanto più il fiume è qualitativamente rilevante. Qualità ecologica e percettiva nel medesimo tempo, accrescendosi i valori visivi quando si è in presenza di varietà.



È difficile ricondurre, per ritornare al tema iniziale, a definite tipologie i corsi d’acqua, cosa che viene complicata dal grandissimo numero di corsi d’acqua presenti qui da noi; tale quantità così elevata, peraltro, ne fa un carattere distintivo della regione. Un diverso motivo di distinzione fra i fiumi è costituito dalla frequenza degli opifici che ne sfruttano l’energia idraulica costellandone i percorsi e per questo aspetto il Biferno ha il primato.
Siamo arrivati al tema del paesaggio quasi incidentalmente, ma è semplice apparenza perché la lettura paesaggistica è fondamentale nell’approccio di una componente ambientale che comunica pure bellezza come sono i fiumi. Questa regione presenta una notevole articolazione, sarebbe meglio affermare disarticolazione, delle valenze panoramiche a motivo del succedersi in breve spazio, meno di 100 chilometri, configurazioni territoriali estremamente diversificate, dalla catena appenninica ai rilievi collinari alla vasta superficie pianeggiante costiera. Le metamorfosi che compiono i fiumi, in particolare il Trigno che viene dall’alto, dal distretto per l'appunto altomolisano, le scaturigini del Biferno, invece, sono in basse, e quindi ha anche una porzione in altura, sono in dipendenza delle trasformazioni che si colgono nel paesaggio molisano spostandosi dai monti alla fascia litoranea.
Nelle vedute che ricomprendono la pianura bassomolisana i fiumi, entrambi, sono la componente dominante dei panorami, mentre, è la situazione opposta ed è relativa al solo Trigno, il corso d’acqua sembra volersi nascondere alla vista tra i boschi dell’Altissimo Molise, si sta pensando a Collemeluccio in cui il Trigno si insinua. Paesaggio e fiume, in definitiva, sono strettamente interrelati tra loro. Finora abbiamo osservato il fiume seguendo la sua sezione longitudinale quale filo conduttore degli insiemi geografici che ripartiscono la nostra terra, ora passiamo a vedere cosa succede nella sua sezione trasversale muovendo dal suo incipit alla sua fine. Il fiume man mano si ingrandisce per accogliere nel suo letto i corpi idrici minori che vi confluiscono nel suo procedere verso il mare; nel caso delle piene occorre sostituire ai verbi ingrandire e procedere rispettivamente
ingrossare e correre con due specificazioni, l’una che può essere interessato all’evento di piena il fiume da un definito tratto in poi in quanto conseguenza della piena di un tributario, dentro Boiano il Biferno non si gonfia, la portata delle sorgenti è costante, l’altra è che le piene degli affluenti in un fiume dal “profilo” molto allungato possono verificarsi in periodi differenti, non tutti contemporaneamente mettiamo in montagna allo scioglimento delle nevi, vale per il Trigno, in altre stagioni nel Medio Molise.

Anomalie nella rete fluviale

I corsi d‘acqua non sono una categoria del tutto omogenea. Ci sono differenziazioni fra loro, qui illustriamo le eccezioni rispetto al modello ideale di fiume che ricorre nella manualistica e, pure, nel modo di sentire comune avvertendo che l’ordine che si seguirà nell’esposizione è abbastanza casuale. Il primo caso è quello del torrente Callora. Esso è un corpo idrico che nasce assai in alto, sul Matese. Un apporto significativo lo riceve prima di arrivare a valle dal Rio. Quest’ultimo trascina con sé i detriti di roccia sgretolata dai cicli di gelo-disgelo scivolati dal circo glaciale denominato Fontanone e passati attraverso lo Scaricaturo, una stretta gola fra Forca di Cane e i Campanarielli, tutti nomi mitici un tempo per i pastori e ora per gli escursionisti, e li conferisce al Callora.
Essi una volta giunti nel piano, persa velocità la corrente del torrente e quindi capacità di trasporto si depositano sul suo letto innalzando sempre più il fondo dello stesso. L’acqua continua a scorrere sotto questo materasso di inerti di consistente spessore riaffiorando solo nel punto in cui il Callora si innesta nel Rio Bottone. In effetti, nei momenti di maggiore portata l’acqua riemerge sulla superficie di questo spesso strato di ciottoli divenuto ormai saturo. Per quanto riguarda i ciottoli, siamo al cospetto di sassi di piccolo taglio, sassolini, in quanto quelli più grandi il torrente, data la sua minore energia idraulica una pianura, non è in grado di spingerli oltre. Non c’è, però, il pericolo di inondazione perché l’alveo risulta assai incassato.

Non ci allontaniamo molto da questo rio in quanto rimaniamo nell’agro di Boiano per parlare di una diversa tipologia di corpo idrico, quella dello “scolmatore di piena”. Al fine di evitare che i corsi d’acqua, minimi, che scendono dal versante matesino sovrastante l’abitato di Boiano nel 1980 si decise di dirottarli, il Fosso di S. Vito e il Ravone, dopo averli intercettati con un “canale di gronda”, in un, adesso, canalone all’esterno dell’area urbanizzata di sezione costante avente forma trapezoidale con setti cementizi. Un’opera che ha, di certo, una notevole incidenza sul contesto paesaggistico e che, però, si va rinaturalizzando a causa della crescita di vegetazione spontanea al suo interno. Se ciò è un bene dal punto di vista percettivo nello stesso tempo è un male dal punto di vista della sicurezza poiché inficia la sua funzionalità provocando le piante l’ostruzione del deflusso idrico.


È da notare che così facendo questa asta fluviale si trova a cambiare non unicamente regione amministrativa ma anche climatica passando da quella a clima Continentale che contrassegna l’ambito molisano a quella Mediterranea che, invece, distingue la Campania. Nella prima, in buona sintesi, le stagioni si riducono a due, una calda e una fredda, mentre nella seconda si hanno le classiche quattro stagioni e ciò non può non avere conseguenze sulla piovosità e, a cascata, sul livello delle acque in un fiume. Si premette che quanto stiamo per dire a proposito del Volturno sono semplici curiosità, è arduo specularci sopra per scoprire le ragioni di queste peculiarità del Volturno. Iniziamo con l’osservare che esso va in direzione sud, non si ha conoscenza di fiumi che per sfociare seguono la direttrice nord per cui tale orientamento appare “naturale” ovvero normale. Il Volturno vuole proprio stupirci e in effetti ci riesce anche
mediante il dissentire dal comportamento ordinario dei fiumi appenninici i quali se hanno origine nel lato adriatico dell’Appennino vanno nell’Adriatico e viceversa; il Biferno che sgorga dal Matese, Appennino Meridionale, va correttamente verso l’Adriatico, al contrario il Volturno che viene dal fianco delle Mainarde, Appennino Centrale, che volge verso l’Adriatico si riversa, sorprendentemente, nel Tirreno. Un atteggiamento difforme nel sistema idrografico regionale, è l’ultimo caso eretico che vediamo, lo hanno i corpi idrici della fascia costiera. La logica generale che è quella di avere i corsi d’acqua organizzati gerarchicamente viene contraddetta dai rivi costieri i quali non appartengono ai bacini idrici principali, il trignino, il bifernino, ecc. ma si buttano direttamente al mare, senza alcuna intermediazione (il Mergolo, il Tecchio, il Sinarca per citarne alcuni).
Il lago di Castel San Vincenzo e l'orso

L’Italia è tra i Paesi europei maggiormente avanzati quello in cui è più numerosa la popolazione dei grandi carnivori. Orsi e lupi frequentano anche l’Appennino dove, nei confini del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, vi è l’orso marsicano, l’unico orso di origine propriamente italica. Esso si distingue dagli altri orsi presenti in Europa, comprese le Alpi, per la sua taglia ridotta e i lineamenti particolari del cranio, caratteristiche fisiche che lo rendono ben riconoscibile. Tra i primi ad interessarsi di questa varietà di orso vi fu il dott. Altobello di Campobasso, allora, siamo nel 1921, provincia di Abruzzo e Molise.

Oggi è un animale in pericolo di estinzione perché il numero di esemplari si è ridotto a 50, quantità di individui che è ritenuta dagli studiosi la soglia minima al di sotto della quale è a rischio la sua sopravvivenza. Tra i problemi di conservazione vi sono quelli legati all’indole di alcuni individui. L’orso marsicano stenta ad essere accettato dalle comunità che vivono in questa area protetta a causa di alcuni esemplari cosiddetti problematici i quali provocano danni alle colture e cercano di predare nei pollai; vi sono, poi, quelli cosiddetti confidenti perché familiarizzano con l’uomo avvicinandosi ai centri abitati.
Per individuare le misure più opportune per garantire la permanenza di questo animale nel parco è stato redatto il Piano d’Azione per la conservazione dell’orso bruno marsicano (Patom) nel quale sono stati coinvolti il Ministero dell’Ambiente, l’ente Parco, le Regioni e l’Ispra. Il progetto Pizzone II si dovrà confrontare con la problematica di primaria importanza della salvaguardia di questa razza ovvero sottorazza che può essere assunta quale emblema, specie bandiera della biodiversità vista la sua rarità assoluta, tenendo conto delle indicazioni contenute in tale piano. Non è trattato come tema
a sé e però è un problema che esiste e allora proviamo a farlo qui: esso è quello che oltre all’orso confidente esiste pure l’uomo confidente. L’orso marsicano per la sua piccola taglia, inferiore a quella dell’orso bruno alpino, può suscitare sentimenti di tenerezza il che rende gli umani poco prudenti nei rapporti con questa specie selvatica. L’orso, in vero l’orsetto sentito come una sorta di animale d’affezione. A denunciare l’esistenza di tale atteggiamento sono le immagini delle incursioni di esemplari di orso, in particolare se è un’orsa con i suoi “cuccioli”, nei centri abitati riprese da videomaker, per così dire, casalinghi incuriositi più che preoccupati dagli avvicinamenti


alle proprie case di queste bestie tanto da indurre, recentemente, le autorità ad invitare i cittadini di quei borghi a una minore esposizione al loro passaggio per evitare il pericolo di aggressione. L’orso non deve prendere confidenza con gli esseri umani. Non è stato sempre così, questa dimestichezza è una cosa dei tempi moderni. In qualche momento della storia recente, non più in là di un secolo, si è affermata la moda dei giocattoli zoomorfi, una spiegazione davvero esauriente di ciò davvero non c’è; in precedenza, e da tantissimo tempo, esisteva solo la bambola, tra l’altro un oggetto destinato esclusivamente al gioco delle bambine.

Nel vasto repertorio faunistico in tale grande zoo di gommapiuma ad essere comparso per primo è proprio l’orsacchiotto di peluche il quale per moltissimi di noi è stato un compagno assai amato, lo si porta pure a letto con sé, lo si abbraccia soffice com’è. Più tardi si sono aggiunti la giraffa, il cane, ecc. ma l’orso quale pupazzo morbido cui fare le coccole rimane il preferito. La competizione maggiore, magari, è con il panda il quale, comunque, è un urside. Come fosse un cuscino il “manichino” a forma di orso lo troviamo nelle camere da letto, nelle stanze da gioco dei piccoli in tutte le abitazioni. Le figure zoologiche la fanno da padrona pure nei cartoni animati e nei fumetti e l’orso è spesso il protagonista dei cartoon. Tra gli audiovisivi di animazione seguitissimi da generazioni di persone in giovanissima età che hanno quale oggetto le avventure di un orso vi è la serie televisiva dell’Orso Yoghi con il suo inseparabile amico Bubu e in seguito un successo strepitoso lo ha riscosso, e lo riscuote ancora Winnie the Pooh.
L’orso sembra non suscitare più timore e ciò rischia di far assumere comportamenti sbagliati verso il “re della foresta”, il carnivoro, oltre che il mammifero più grande d’Europa invogliando quest’ultimo a prendere familiarità con l’ambiente antropico il che porta l’animale, in cerca di cibo, a frequentare financo i villaggi. È crudele dirlo e però non si deve essere amichevoli con l’orso, ne va della sua salvezza. L’altra tematica che dovrà affrontare l’intervento è quello della preservazione il più possibile dell’immagine del lago di Castelsanvincenzo il quale seppure un bacino artificiale costituisce un’attrattiva naturale. I bacini lacustri sono sempre elemento paesaggistico di grande rilevanza. Ad essi si associa una visione, per via delle sue acque calme, di tranquillità, una sensazione di mitezza che è alla base della seduzione che esercitano; la variabilità di quota dell’invasamento prevista nella progettazione produce uno sconvolgimento di questi effetti, ne a dire che vi sono altri laghi montani, prendi quello di Civitanova, che arrivano a prosciugarsi totalmente durante l’anno.

Se c’è una cosa che hanno in comune i laghetti di origine carsica con invasi come quello di Castelsanvincenzo è il fatto che non c’è niente da pescare in entrambi perché in quanto a conformazione sono assai differenti fra loro, i primi, quelli dovuti al carsismo, sono in genere di forma circolare essendo doline che si riempiono d’acqua, mentre gli altri sono di forma allungata assecondando quella della valle che li ospita. Va sottolineato che, ad ogni modo, nonostante la sua artificialità il lago di Castelsanvincenzo è ormai entrato stabilmente nell’immaginario collettivo.

Il paesaggio lacustre
Il lago del Liscione e quello di Occhito sono delle presenze importanti nel territorio molisano e ciò nonostante sono dei “beni” poco considerati, alla stregua di semplici, seppure enormi, serbatoi d’acqua funzionali alle attività agricole (e non più a uso potabile il Liscione da quando Termoli è servita dall’Acquedotto Molisano Centrale).

Sono, invece, risorse notevoli, non sono dei “vuoti”, dei “buchi neri” nel contesto territoriale regionale. Alla stessa maniera di altri luoghi non “occupati” dalle attività antropiche, dalle fasce sommitali dell’Appennino, le cime del Matese e delle Mainarde, alle rocce, le morge del Parco delle Morge, alle dune, nella costa di Petacciato, sono decisivi nel determinare l’identità della regione. Gli invasi svolgono un ruolo importante nell’ecosistema. I bacini idrici nonostante siano artificiali hanno saputo conquistarsi un posto importante nel sistema ecologico diventando addirittura essenziali per gli uccelli migratori che vi sostano per abbeverarsi tanto da portare al loro riconoscimento quali Zone di Protezione Speciale nella Rete Ecologica Europea.

Gli invasi, dunque, producono benefici e nello stesso tempo sono in grado di fungere, lo si è provato in passato, da volano per lo sviluppo di comprensori in cui sono inseriti, si sta pensando al turismo. Nella nostra terra l’interesse turistico, per quanto riguarda le aree naturali, è rivolto verso il mare, le montagne, le superfici boscate e meno verso i laghi, è quasi nullo quello verso i fiumi. A costo di smentire quanto appena detto è lungo le aste fluviali, del Volturno e del Biferno, che si è andata affermando la pratica del canoismo mentre negli specchi lacustri per ragioni legate alla sicurezza che limitano l’agibilità alle barche non hanno preso piede gli sport acquatici a vela. Eppure sono stati previsti allo scopo gli attracchi per le imbarcazioni e le cabine per il loro rimessaggio, i primi mobili per assecondare l’escursione del livello del lago che nel Liscione è più sensibile che ad Occhito. Erano stati pianificati approdi su entrambi i lati, s’intende quelli lunghi, dell’invaso del Liscione per ricomprendere in questa azione, la navigazione del lago, anche il comune di Larino effettuando una specie di forzatura poiché da questo centro è difficile scendere al lago. Si voleva a tutti i costi che fosse un’iniziativa di scala comprensoriale e in tale modo rendere il bacino uno spazio condiviso, fatto che avrebbe rafforzato la coesione tra le comunità dirimpettaie. Del resto è nelle cose questo spirito comunitario,
il lago diviene il perno delle proposte di programmazione che coinvolgono tutti i comuni circostanti ad esso. La sopravvenuta presenza lacustre dà una nuova visione di tale ambito, stravolge l’originario senso dei luoghi attribuendo una diversa significatività agli stessi. È segnato, in definitiva, un destino comune a tutti i borghi che stanno intorno. Non è immaginabile un domani distinto e separato, a sé stante per alcuno di questi. Ogni prospettiva futura, di sicuro, ruota intorno a questo forte segno paesaggistico. Niente è come prima, qualsiasi scorcio panoramico ormai è dominato dall’invaso idrico, la sua immagine è pervasiva. L’invaso condiziona le prospettive di crescita dell’economia locale le quali non possono non coinvolgere l’insieme delle entità comunali fronteggianti lo specchio d’acqua. Allargando lo sguardo, estendendo la visione dai distretti circumlacuali alla conformazione regionale nella sua interezza riscontriamo che i bacini idrici, la loro comparsa, contribuiscono ad aumentare la complessità del territorio molisano il quale è già caratterizzato da una notevole varietà delle sue componenti, dai boschi ai monti ai rilievi collinari alla costa alle pianure interne: essi influiscono non esclusivamente sulla singola unità sub-regionale o sub-interregionale, nel caso di Occhito, bensì incidono sulla totalità dell’assetto paesaggistico del Molise in quanto “segni” di grande dimensione.


È consentito parlare di un Molise montano, di uno collinare, di uno costiero e così via fino al Molise lacustre. L’invaso di Guardialfiera a proposito dell’incidenza sul paesaggio regionale preso nella sua totalità essendo capace di mettere in rapporto fra loro le diverse zone in cui si articola, fa da cerniera tra il Molise centrale e il basso Molise, un autentico punto di snodo fra queste due distinte realtà. Non si cambia argomento, il tema rimane sempre quello dei laghi ma ora si ricomprendono in esso anche gli specchi d’acqua minori i quali hanno in comune con quelli maggiori il fatto di essere frutto di analogo intervento antropico, quello dello sbarramento del flusso idrico che porta all’invasamento del corso d’acqua. Essi sono l’invaso della diga di Chiauci, quello della diga dell’Arcichiaro e il lago di San Vincenzo al Volturno. Si differenziano fra loro perché lo sbarramento di Chiauci è su uno dei primari fiumi molisani, il Trigno, Arcichiaro è su un affluente del Biferno mentre S. Vincenzo è su un affluente di affluente per dirlo sinteticamente. Li accomuna essere tutti e tre posti nell’alto corso del percorso degli assi fluviali e, dunque, senza eccezioni essi sono collocati in circondari montani.

Arcichiaro e S. Vincenzo è come se fossero incastonati in massicci montuosi, il primo in quello matesino il secondo nelle Mainarde e ciò, l’essere cinti dalle vette appenniniche, ne fa dei veri e propri gioielli paesaggistici. Le tipologie di dighe sono tante e tra queste ci sta quello degli sbarramenti inutilizzati, ne abbiamo una a Campolattaro appena fuori dal Molise, uno spreco di denaro per la costruzione del manufatto diga e uno spreco di suolo perché i terreni che dovevano essere invasati sono rimasti in abbandono. Infine, abbiamo avuto invasi temporanei come quello originato da una frana innescata dal terribile terremoto del 1456 che formò una specie di diga in terra sul Biferno in agro di Colledanchise con le acque che inabissarono Boiano.

Il Lago di Guardialfiera
L’attraversamento del lago, poi, costituisce un’autentica esperienza immersiva. Ben altra situazione è quella che si verifica lungo il Trigno dove la Trignina pur se anch’essa definita fondovalle non lo è dall’inizio alla fine perché nell’Alto Molise si distacca dal corpo idrico, lo segue a distanza, privilegiando la rettilineità alla vicinanza con il fiume il quale qui si incurva e ciò avrebbe comportato la curvilineità dell’asse stradale. Il Biferno è diritto per l’intero percorso e perciò può essere affiancato da una strada veloce, velocità consentita dall’essere geometricamente una retta. Se, poi, ci soffermiamo sul lago l’oggetto del nostro discorso, vediamo che tale legame con il fondo della valle, la Bifernina è una vera e propria fondovalle, si fa ancora più stretto, la strada con i piloni dei viadotti che affondano
La diga del Liscione è tante cose insieme delle quali una è l’essere una delle principali attrazioni paesaggistiche della regione. Più degli altri invasi regionali, Chiauci e Guardiaregia, e interregionali, uno solo, Occhito che è in condivisione con la Puglia, e ciò perché sta in un punto strategico del territorio molisano, è quasi nel baricentro, e nello stesso tempo perché è ben visibile dalla Bifernina, la maggiore arteria viaria del Molise. Quest’asse di grande comunicazione corre appaiato al Biferno e conseguentemente al lago con il quale è in perfetta osmosi, peraltro sono coetanei, e di questo parleremo fra un po'; costituisce una sorta di ballatoio essendo a tratti un percorso pensile da cui osservare il fiume ed, è ovvio, anche il bacino lacustre.
nello specchio d’acqua forse proprio nel letto inabissato del fiume; tale integrazione tra manufatto viario e bacino lacustre è una rarità in Italia, vi sono solo altre 5 realtà simili. Passare in mezzo alla distesa acquosa è davvero un momento speciale reso ancora più interessante dalla sinuosità del viadotto. In definitiva, il lago del Liscione è un elemento di pregio del nostro paesaggio e ciò nonostante che sia artificiale. L’artificialità, peraltro, non impedisce che all’invaso in questione vengano riconosciute valenze naturalistiche notevoli da parte degli organismi comunitari che lo hanno incluso nel programma Natura 2000. Il bacino di Guardialfiera è stato designato quale Zona di Protezione Speciale perché punto di sosta dell’avifauna migratrice. Si passa ora a vedere altre peculiarità dell’invaso, prettamente di tipo geografico.

La prima, che non è una singolarità in senso assoluto poiché ricorre in tanti specchi lacustri di una certa estensione, è che nell’invaso sversano le loro acque oltre al Biferno il quale evidentemente è il tributario fondamentale anche dei corpi idrici minori e di questi uno dei più grandi è il torrente Cervaro il quale viene da Castelmauro. Non è scontato che i corsi d’acqua secondari vadano a confluire nel lago, potrebbero innestarsi nel Biferno prima o dopo l’invaso. Si verifica, per intenderci, una situazione simile, fatte le debite proporzioni, a quella dello Scudo Canadese: qui i fiumi non vanno in direzione del mare bensì verso i Grandi Laghi, cioè vanno verso l’interno del continente e non verso l’esterno.

Il lago, l’acqua invasata, si accresce per via delle precipitazioni piovose che cadono perpendicolarmente al di sopra della sua superficie, un apporto che è maggiormente sensibile ad Occhito perché il perimetro della distesa idrica ha un’estensione superiore, e di molto, a quella del Liscione. Bisogna, inoltre, considerare che si riversano in entrambi le acque di scorrimento superficiali non incanalate in rii provenienti dai versanti della conca che li delimita poiché entrambi sono di natura argillosa quindi incapaci di assorbire le piogge. L’argilla che predomina nella costituzione geologica dei fianchi della vallata che ospita l’invaso di Guardialfiera impose al momento della realizzazione dello stesso, poiché materiale oltre che impermeabile anche soggetto a scivolamento, la piantumazione di boschi di conifere per impedire lo smottamento del suolo e con esso il rotolamento a valle di particelle terrose le quali avrebbero nel tempo portato all’interrimento del bacino. A influire sulla qualità dell’acqua dei laghi, al di là dell’intorbidimento provocato dalla terra che proviene dalle colline all’intorno la quale o rimane in sospensione o si deposita sul fondo è soprattutto il carico inquinante trasportato dall’immissario. Una causa dell’inquinamento nella fase iniziale di vita dei bacini è stata la putrefazione della vegetazione preesistente all’invasamento rimasta sommersa dall’acqua, dal disfacimento di fabbricati, percorsi asfaltati, ecc. ora subacquei. Allo scopo di garantire un livello qualitativo elevato della risorsa idrica utilizzata anche ai fini potabili antecedentemente, per il Liscione, all’entrata in funzione dell’Acquedotto Molisano Centrale è necessario che i depuratori dei Comuni rivieraschi siano tenuti in perfetta efficienza, che raggiungano standard di funzionamento ottimali. Tufara, bacino di Occhito, in passato ha avuto problemi nell’assicurare il soddisfacimento dei parametri fisico-chimici richiesti dai reflui in uscita dal proprio impianto di depurazione. Concludendo è indispensabile la salvaguardia della limpidezza delle acque la quale concorre a fare di tali invasi una primaria emergenza paesistica.
La tutela dei corsi d'acqua

Un piano, qualsiasi piano che abbia ad oggetto il territorio è obbligato a predisporre una disciplina di carattere generale, non essendo realistico, data la vastità del suo campo, geografico, d’azione, pensare di fissare disposizioni specifiche per ciascuno degli elementi presenti in quell’insieme territoriale. Prendi la rete idrica la quale innerva ogni angolo della superficie regionale per cui occorerebbe una conoscenza dettagliatissima dei luoghi al fine di definire misure di tutela puntuali per i singoli membri di cui si compone il sistema fluviale; è una cosa impossibile perché troppo onerosa, l’operazione sarebbe antieconomica. Si rischia, peraltro, di perdersi fra troppe specificazioni.
Si ricorre, perciò ad una tipizzazione delle componenti del paesaggio, stiamo parlando della pianificazione paesistica, riconducendo le stesse ad alcune, poche, categorie; le norme di tutela sono differenziate proprio in relazione a tali raggruppamenti. Per quanto riguarda i corsi d’acqua, i quali sono l’argomento della presente nota, i piani paesaggistici molisani prevedono una distinzione tra di essi in relazione alla posizione che occupano in una scala gerarchica nella quale il primo posto è occupato dalle aste che sversano direttamente nel mare, cioè Biferno, Trigno, Volturno e Fortore, il secondo ai tributari dei primi, il terzo agli affluenti degli affluenti, fermandosi al quarto ordine, i rivi che riforniscono questi ultimi.
Una considerazione da farsi è che la gerarchia così stabilita non tiene conto della portata idrica dei singoli segmenti del reticolo fluviale per cui si trattano in maniera uguale entità dissimili, potendoci essere differenze in termini di quantitativo d’acqua che trasportano. Quando l’ampiezza del bacino si restringe è ovvio che i torrenti, i quali, ben si sa, non nascono da sorgenti, ovvero le aste minori della maglia fluviale, diventano più corti, raccogliendo meno acqua meteorica, a meno che i rilievi che delimitano la valle siano alti, la piovosità e, soprattutto, la nevosità aumenta con la quota. Il Trigno nel suo tratto iniziale corre tra i monti dell’Alto Molise e la Montagnola. Man mano che ci si avvicina alla costa le vallate, bifernina e trignina, si allargano e lo schema idrico secondario diventa articolato con i torrentelli che non si riversano direttamente nel fiume,

bensì confluiscono, seguendo il classico schema ad albero, nel maggiore fra loro (anche merito dell’apporto d’acqua che gli forniscono) il quale funge da tronco ed è questo che si immette nell’asse fluviale. Giunti infine nella piana adiacente alla marina gli affluenti in quanto tali scompaiono, ogni corso d’acqua fa da sé, seppure esiguo quali il Mergolo, il Tecchio, il Rio Salso, hanno cioè una foce propria. Per l’applicazione della normativa predetta le cose, già difficili in sé come si è visto, si complicano ulteriormente quando, è il caso del Cavaliere, il fiume che si diparte da Isernia il quale prende vita da due tributari di pari rango, il Carpino e il Sordo, fiancheggiando negli opposti versanti la dorsale su cui sorge il capoluogo pentro. È singolare anche il rapporto che vi è tra Vandra e Volturno, l’uno con regime torrentizio l’altro alimentato da fonti perenni.

Nei periodi di pioggia copiosa l’apporto idrico del Vandra, il quale ha un impluvio assai più grande, al Volturno è particolarmente significativo, mentre nel resto dell’anno è il flusso delle acque sorgentizie di Capo Volturno ad avere il sopravvento per cui è legittimo ritenere quest’ultimo il corso gerarchicamente superiore. Vale la pena far notare che se il Vandra ha origini in un sito, siamo a S. Pietro Avellana, che è stato sempre Molise, la sorgente del Volturno è in un luogo, Rocchetta al Volturno, che faceva parte della Terra di Lavoro, perciò Campania: nei momenti di precipitazioni piovose intense, il contributo molisano, quello dato dal Vandra, al Volturno il quale in seguito è interamente campano diventa rilevante, altrimenti, nelle stagioni asciutte, diventa irrilevante.
Ciò succede ad occidente della regione perché ad oriente c’è, comunque, il Tammaro a tributare acqua a questo fiume. Non esiste solo il genere delle persone, è una sciocchezza quella che si sta per dire, ma pure dei corsi d’acqua: Vandra è un nome al femminile non solo per la vocale finale, localmente la si chiama la Vandra, invece il Volturno è maschile per cui la loro unione assomiglia ad un matrimonio tradizionale, lo si ripete è una stupidaggine, che si celebra nella piana tra Montaquila e Macchia d’Isernia. Una relationship analoga vi è tra il Trigno e il Verrino, il quale ultimo pur assicurando un sostegno in termini di acqua al’altro non decisivo è stato capace di far compiere a questo una svolta brusca, costringendolo a piegare energicamente il suo “superiore gerarchico” verso l’Adriatico.

Un breve accenno al Sangro, altrettanto breve che il tratto in cui lambisce la nostra regione, lo si fa per illustrare una rara tipologia di sdoppiamento di fiume, adesso all’interno del medesimo letto, il tipo a canali intrecciati, paritari in tutto, non c’è questione di gerarchia; tale configurazione porta alla formazione nella fascia centrale dell’alveo di isolotti, l’Isola di Fonte della Luna ci appartiene. Le regole per la salvaguardia dell’ambiente fluviale sono non solo identiche per tutti i fiumi, ma anche identiche per tutto un fiume seppure sia morfologicamente cangiante nel suo sviluppo longitudinale.
Il Trigno, che prendiamo come esempio, lo si può dividere in due pezzi con 2 connotati profondamente diversi. C’è quello concernente la luce che lo pervade, scarsa durante il suo incedere nella fase giovanile in mezzo alle montagne altomolisane ricche di boschi che giungono fin sulle sponde ombreggiandolo e la penetrazione dei raggi solari è un fatto che influenza la struttura ecologica oltre che la percezione visiva. Allorché raggiunge il piano esso presenta una sezione trasversale talmente estesa da sembrare quando è in magra una landa desertica; il canale sottile in cui si è ridotto a scorrere è esposto al sole senza che vi sia vegetazione ripariale, le piante non attecchiscono sulla ghiaia, a fare ombra e l’ecosistema

acquatico ne risente. La conformazione del Trigno muta nel passaggio tra la zona montana e quella pianeggiante pure planimetricamente, la seconda connotazione preannunciata: il fiume che innanzi aveva disegnato una larga curva, era curvilineo, a partire dall’incontro con il Verrino si adegua all’andamento dei fiumi appenninici che è rettilineo. La rettilineità, vale anche per il Biferno che lo è nella sua interezza, con l’ortogonalità rispetto alla linea di costa; è questa una caratteristica costante delle aste fluviali provenienti dall’Appennino. L’andare diritti al mare, perpendicolari ad esso riduce la lunghezza e la pendenza del tragitto, cosa che fa risparmiare energia.
I corsi d’acqua minori

I corsi d’acqua come è naturale che sia dovrebbero stare in tutto il Molise; ciò che apparentemente è scontato, lo si ripete, viene smentito dall’assenza di circolazione idrica in superficie nelle aree, peraltro ampie, qui da noi caratterizzate dal fenomeno del carsismo. Sul Matese, salvo poche sorgenti in quota tra le quali vi è Capodacqua vicino a Campitello, non vi è la presenza neanche di rivi, non si dice di fiumi. Nei massicci carsici, comunque, si formano al momento dello scioglimento delle nevi, quelle raccolte nelle doline, laghetti stagionali, prendi il piccolo lago dei Castrati e il grande Lago di Civitanova sulla Montagnola.

L’allargamento dello sguardo dai corpi idrici di tipo lineare a quelli di tipo areale, cioè gli specchi d’acqua, ci è utile anche per formulare la seguente osservazione: nel paesaggio molisano la componente, per così dire, acquosa ha una incidenza maggiore che altrove perché siamo ricchi di invasi, da quello del Liscione a quello di Occhito a quello di Castel S. Vincenzo e che nel prossimo, futuro aumenteranno ulteriormente con il riempimento dei bacini di Chiauci e di Arcichiaro. È doveroso, seppure non essenziale per ciò che riguarda il discorso sull’influenza che essi esercitano sulle vedute paesaggistiche, evidenziare che i primi, quelli carsici, sono di origine naturale, mentre i secondi sono artificiali, frutto dello sbarramento della corrente fluviale. La “liquidità” è, in qualche modo, un carattere di diversi scorci panoramici di una terra, quella in cui viviamo, fatta di terra, appunto, e di acqua; essa sarebbe addirittura superiore, in verità di

pochissimo, se tutti i corsi d’acqua scorressero in superficie, ma ve ne sono alcuni, pochissimi, che spariscono alla vista o perché fluiscono, è il caso del Callora, al di sotto del letto di detriti che essi stessi hanno trasportato e che si sono depositati nel loro, per l'appunto, letto o perché si infiltrano nel sottosuolo, il canale S. Nicola a Monteroduni e, piace citarlo nonostante non sia in territorio regionale, bensì ai suoi confini e, però, nel comprensorio matesino il fiume Lete. Il Molise è una regione assai ben dotata dal punto di vista idrico tanto da rifornire di tale preziosa risorsa le regioni vicine tra cui la Campania, tramite la captazione del Biferno, anche se non è detto che l’intera acqua che vi circola sia scaturita da fonti che sgorgano dal suo suolo. Il Trigno ha origine nell’alto Molise il che non vuol dire che la sua corrente idrica sia interamente molisana, ricevendo nel cammino che compie l’apporto di vari affluenti del versante abruzzese.

Ai bordi l’ambito regionale, i panorami che lo comprendono, è vivacizzato dal movimento delle acque di fiumi provenienti da altre regioni quali il Fortore che ha inizio da 3 sorgenti e non da un’unica appena più in là del perimetro comunale di Riccia, in Campania, e il Sangro che, invece, viene da più lontano, dai monti dell’Abruzzo. Entrambi toccano, a differenza del Trigno, solo per un breve tratto il confine del Molise, il quale per quanto riguarda il Sangro presenta la singolarità di estendersi per 200 ettari sulla sponda opposta dell’asta fluviale; probabilmente ciò è avvenuto perché il corso d’acqua che qui è in piano formava lì un’ansa la quale dopo la rettificazione dell’alveo è rimasta separata dal resto del territorio regionale (un indizio forte è il nome di quest’area occupata da un bosco igrofilo, Isola di Fonte della Luna), un pezzo di Molise fuori dal Molise. Viceversa, dalla nostra regione prende origine il Volturno che in seguito diventa il fiume maggiore della Campania;

è da notare che è un suo affluente il Tammaro, difficile da crederci in quanto sta nel vertice contrapposto della regione in senso trasversale. Siamo di fronte, in base a quanto finora detto, ad una idrografia complessa la quale rende complicati i quadri visivi molisani che essa condiziona. I piani paesistici vigenti devono operare necessariamente delle semplificazioni allo scopo di fornire norme di tutela unitaria com’è nello spirito di qualsiasi normativa. Per far ciò occorre una classificazione dei corsi d’acqua riconducendo ad un numero limitato di categorie gli elementi della rete idrografica per ciascuna delle quali è stabilita una fascia di rispetto la cui larghezza varia a seconda se il corpo idrico sversa direttamente nel mare (per il Volturno è il Tirreno) che, perciò, del I ordine oppure se è un tributario di questo, II ordine, fermandosi al IV ordine. La tassonomia è il fondamento dell’attività normativa e, però, si scontra con una realtà idrologica costituita da una congerie di entità idrauliche molto differenti fra di loro.
Lo rivelano pure le loro denominazioni le quali comprendono rio (con le sue varianti, Riovivo, Termoli, Riosecco, Macchiagodena, Riochiaro (Colli al V.), rivo (Rivo a Trivento), torrente (Cervaro a Castelmauro), vallone (delle Coste a S. Massimo), fosso (della Neve a Boiano), fossato (Cupo a Campobasso), fossa (Fossaceca a Fossalto che sta più in alto), rava (a Pozzilli), ravarelle (ovvero Lavarelle a Campitello, mero ruscellamento) fino ai distinti nomi che identificano le sorgenti (il già citato Capodacqua, Caporio a Macchiagodena di nuovo, Foce, in dialetto locale Fota, incredibilmente, con un’inversione di significato, a Campobasso dove c’è pure Focetta). Tali toponimi hanno poco a che vedere con i connotati idrodinamici del corso d’acqua, con la sua lunghezza, la sua larghezza e, in fin dei conti, con l’ambiente fluviale, problema che hanno in comune con la ripartizione della rete fluviale a seconda di quale posto occupa il corpo idrico nella gerarchia degli affluenti prevista dalla pianificazione paesistica.

Un problema nel problema è chi è affluente di chi, dilemma che riguarda le coppie Tappino-Fortore, Trigno-Verrino, Vandra-Volturno; per esemplificare e spiegare vediamo che in quest’ultima accoppiata il primo nei periodi di piena, avendo un bacino idrografico maggiormente ampio, porta più acqua del secondo il quale si prende la rivincita nelle stagioni meno piovose essendo alimentato da copiose sorgenti piuttosto che da precipitazioni atmosferiche come l’altro. C’è, poi, il caso quasi enigmatico del trinomio Sordo-Carpino-Cavaliere, scomponibile in uno dei due possibili binomi Sordo Cavaliere-Carpino o, al contrario, Carpino Cavaliere-Sordo poiché il Cavaliere non è un’asta fluviale a sé stante, autonoma nei confronti del resto, configurandosi quale prosecuzione di qualsivoglia dei due rami che lo precedono.

Il Biferno, caratteri naturalistici
Nella sua parte mediana, in particolare “dalla confluenza del Torrente Quirino al Lago di Guardialfiera”, quindi per un lungo tratto, l’asta fluviale del Biferno rientra in un Sito di Importanza Comunitaria, identificato con i termini virgolettati sopra. È un pezzo di fiume molto esteso, 20 chilometri, specie se rapportato alla sua lunghezza complessiva che è di circa Km. 80. Questo SIC è connotato da due Habitat di Interesse Comunitario, in sigla il 92AO e il 3260. Il secondo dei due è denominato «Fiumi delle pianure e montani con vegetazione del Ranunculium fluitantis e Callitricho-Batrachion», una formazione davvero particolare quella del Ranuncolo flottante sulla superficie dell’acqua; esso, a differenza dell’altro habitat come vedremo, è difficilmente ricostituibile una volta rimosso, tanto in loco quanto in un punto diverso dello stesso corpo idrico, potendosi considerare una sorta di relitto dell’ecosistema di altre fasi della storia dell’ambiente, una specie di resto archeologico.


Nella revisione e perimetrazione degli Habitat commissionata dalla Regione alla Società Botanica Italiana nel 2008 il 3260 occupa il 3% dell’area di questo SIC. Ben più vasta è la parte di SIC in cui si rinviene il 92AO, essendo il 59%. Siamo quasi al doppio della percentuale di copertura forestale, perché questo secondo habitat è di tipo boschivo, che hanno i Siti come questo connotati da fitocenosi riparie arboree. La denominazione completa di tale habitat è 92AO-Foreste a Galleria di Salix Alba e Populus alba, dunque siamo di fronte a piante. Non vi è una totale coincidenza tra Habitat e SIC sul pezzo di Biferno in questione perché, salvo quella piccolissima quota di habitat 3260, vi sono i ponti, ad esempio vicino alla Centrale Guacci e il ponte dei 3 Archi, ed alcuni viadotti della fondovalle, i quali, però, essendo alti sorpassano la vegetazione, per il passaggio dei quali è stato necessario eliminare le alberature fluviali.
Non vi sono, comunque, arginature, le quali avrebbero comportato la sparizione delle sponde vegetate, in quanto la Bifernina si è costantemente discostata, anche per il pericolo delle piene, dal greto del fiume, oltre che a correre più in alto. In definitiva, qualora si dovesse, come nel caso della formazione di bacini per arrestare la corrente e, contemporaneamente, aumentare il livello delle acque al fine di favorire il loro convogliamento nel canale di derivazione di un impianto idroelettrico, sgombrare l’alveo dalle specie vegetali sarebbe difficile individuare spazi liberi ai margini del Biferno per ricreare l’habitat sottratto (alla Rete Natura 2000, si intende). Operazione, quest’ultima, doverosa in termini pure normativi e anche possibile poiché si tratta di vegetazione azonale, diffusa in tutto il territorio italiano.


Azonale, sempre che vi sia un fondo di origine alluvionale, ma ciò succede dappertutto quando il fiume, come nel nostro caso, è di pianura (il Biferno passa in 20 chilometri dall’altitudine di 350 metri in agro di Colledanchise ai 200 metri di Guardialfiera) e i corsi d’acqua sempre tendono a svilupparsi nel piano. Rimanendo al caso esposto è da aggiungere che distruzione di questo habitat non significa solo sradicamento delle essenze arboree, ma anche la loro permanente sommersione, eventualmente parziale nel bacino di cui sopra. È vero che si tratta di piante igrofile le quali, ad ogni modo sopportano, sia pure a livello di tronco, per breve tempo, quello dell’onda di piena, lo stare sott’acqua. Lasciamo adesso il tema degli habitat e tocchiamo quello della fauna che frequenta il Biferno, altrettanto importante nell’ottica dell’integrità della Rete ecologica europea. Questo fiume, proprio nel segmento di cui stiamo parlando, è frequentato dalla lontra, una sorta di elemento naturale simbolo di questo fiume. Perlomeno in passato in quanto nei primi decenni postbellici si è avuta una forte riduzione di esemplari, non solo qui da noi, bensì in tutto il continente, una perdita sensibile che ha depauperato il patrimonio faunistico italiano, in particolare quello della porzione centro-meridionale della Penisola dove era concentrato (e si spera riprenda ad esserlo) la stragrande quantità di esemplari. Il fenomeno del decremento di Mustelidi, tra i quali rientra pure, insieme alla puzzola e la martora, la lontra, cioè lutra lutra, è stato violento, oltre che avvenuto in poco tempo, e i fattori determinanti, sicuramente per la puzzola e la lontra che hanno quale areale d’elezione i corsi idrici e le zone umide, l’inquinamento delle acque.
Il Biferno prima della dotazione ai comuni che si affacciano su di esso di efficienti depuratori versava in condizioni ecologiche preoccupanti e ciò accadeva ovunque nella nostra nazione tanto che la lontra è diventata una degli animali selvatici maggiormente in pericolo di sparizione. La lontra, come gli altri mustelidi è carnivora e si nutre di pesci per cui la sua presenza rivela uno stato di salute soddisfacente dell’asta fluviale la quale viene misurata, tra gli altri, da indicatori biologici, la ricchezza ittica appunto. Deve di certo aver concorso alla individuazione di questo SIC gli avvistamenti, sia pure sporadici, della lontra, un SIC non da poco con i suoi 360 ettari che si sviluppano linearmente e quindi rappresenta uno spazio vitale significativo. Tra le minacce antropiche in questo segmento del Biferno che attraversa ambiti rurali, senza scarichi industriali né cave di estrazione inerti, vi sono le centrali idroelettriche a causa degli sbarramenti per deviarne il quantitativo d’acqua necessario ad azionare le turbine. Azioni di mitigazione obbligatorie, quando in certi punti la fascia demaniale diventa stretta e non coperta da boscaglia (dipende dalla larghezza della valle), tale da non poter assicurare il transito indisturbato della lontra ai lati del fiume, sono quelle per la costituzione di specifiche rampe sul corpo della briglia. Nello stesso tempo gli invasi, nonostante le ristrette dimensioni, andrebbero concepiti in chiave naturalistica, accanto a quella ingegneristica, immaginandoli alla stregua di pozze o laghetti naturali; partendo dalla considerazione che le acque correnti si trasformano in acque ferme andrebbe favorita la nascita di un canneto ai bordi.

Per la loro delimitazione laterale occorre adottare tecniche di ingegneria naturalistica, le quali essendo dotate di elasticità sono capaci di assecondare la dinamicità caratteristica dell’ambiente fluviale, la cui morfologia, quasi per statuto, è in continuo divenire (si pensi al cambiamento stagionale di portata, alle inondazioni). Il Biferno, inoltre, è frequentato da una abbondante avifauna, con uccelli compresi nella lista delle specie di «interesse comunitario» per la cui osservazione vanno installati gli appositi capanni. In definitiva, è indispensabile una grande attenzione per gli interventi interessanti questo corso d’acqua, la cui vitalità è scarsamente percepibile dalla statale che vi corre accanto perché il fiume è nascosto sotto la «galleria di salici e pioppi» di cui all’habitat 92AO, cioè dalle chiome degli alberi che si protraggono, congiungendosi fra loro, al di sopra dell’alveo escludendolo alla vista.


Il Biferno, fiume tutto molisano
Il Biferno non è il fiume più lungo del Molise poiché il Trigno lo batte per lunghezza e, però, è il più importante. La ragione non è quella che il suo bacino idrografico è più vasto, perché non lo è, non fosse altro che il percorso che compie è più breve di quello del Trigno e, quindi, la vallata che attraversa è più corta; non è detto, comunque, che un bacino idrologico per essere grande basta che abbia uno sviluppo planimetrico esteso in quanto conta che, oltre che in pianta, lo sia in elevato. In definitiva, sono significative ambedue le dimensioni, quella orizzontale e quella verticale, ma l’altezza dei rilievi che delimitano le due valli sono equiparabili, per cui prevale per stabilire quale sia il maggiore dei bacini l’estensione chilometrica.

Un’obiezione da attendersi è che un lato del Biferno è delimitato dal Matese, montagna più alta di qualunque altra che fiancheggia il Trigno dalla quale, però, non si sviluppano corpi idrici penetrando le acque meteoriche nel sottosuolo del massiccio, massiccio anche in larghezza, per via della sua natura carsica. È proprio il fatto che sia un monte costituito da calcari quello da cui sgorga il Biferno a farne un immenso serbatoio idrico il quale alimenta le sue scaturigini; è, dunque, la portata delle sorgenti, indubbiamente superiore nel Biferno rispetto al Trigno, a determinare la prevalenza del primo fra i corsi d’acqua non solo molisani. Ciò non è più del tutto vero da quando negli anni ’60 del secolo scorso si è avuta la captazione dei tre gruppi sorgentizi (Maiella, Pietrecadute, Riofreddo) che danno vita, in misura oggi ridotta, al Biferno.

Abbiamo iniziato nel descrivere il Biferno dalla comparazione con il Trigno e continuiamo con tale parallelo il quale ci permette di evidenziare una particolare caratteristica delle aste fluviali appenniniche che è quella che esse sono perpendicolari tanto all’Appennino quanto alla costa. Mentre il Trigno fa un’eccezione nel suo tratto iniziale il Biferno dal principio alla fine è rettilineo; a tale andamento dritto deve aver influito pure la presenza della gola del Liscione, che è allineata secondo una linea che è il segmento minore tra la sorgente e il litorale, passaggio obbligato per il corso d’acqua. Questa strettoia in cui è stata costruita intorno al 1970 un’opera di sbarramento per formare l’invaso di Guardialfiera ha indirizzato, cioè, il percorso del fiume il quale sul suo incedere sembra aver puntato verso di essa in quanto unico varco nel contesto alto collinare di questo ambito sub-regionale. Il fiume in tale suo pezzo non è lo stesso delle origini perché nel

frattempo si è ingrossato a seguito dell’apporto degli affluenti, numerosi sia in sponda destra (il Fosso d’Ischia, il Rivolo, il Riomaio fino ad arrivare al Cigno) sia sulla riva sinistra (il Fossaceca, il Vallone Grande, il Cervaro), numerosità dovuta alla scarsa permeabilità dei terreni che l’asse del Biferno incontra nella sua porzione intermedia, anche dopo superato il territorio delle Argille Varicolori. Tra i corsi d’acqua secondari non si sono elencati finora quelli che entrano nel Biferno nella sua fase finale: al Ponte della Fiumara avviene l’incontro con il Rio Bottoni che ha inglobato il Callora e subito dopo confluisce nel nostro fiume il Quirino. Si tratta di 3 corpi idrici derivanti da complessi montuosi carbonatici, gli ultimi 2 dal Matese, il primo dalla Montagnola; il fenomeno carsico che connota questi rilievi montani comporta che le sorgenti siano perenni, rendendo ben diversi tali tributari da quelli che seguiranno lungo l’alveo del Biferno che, invece, hanno un regime torrentizio.

Da quando il Biferno ha subito il trasferimento di una quota considerevole della sua massa idrica verso la Campania, ha acquistato una notevole importanza quella trasportata dai corpi idrici minori che ne hanno condizionato addirittura la fisionomia facendola diventare di tipo torrentizio con periodi in cui il suo letto rimane quasi a secco. È pressoché costante, va evidenziato, il quantitativo d’acqua nel fiume (salvo eventi eccezionali non trascurabili, causati dai piccolissimi rivi che scendono dall’alto, per la sicurezza dell’abitato di Boiano) nella piana in cui nasce. Qui la corrente, in conseguenza della pendenza scarsissima, è lenta,
a differenza di ciò che avviene in seguito con l’incremento della velocità delle acque spinte da quelle trasportate dai torrenti, specie durante le piene, che si immettono nel fiume Biferno dopo aver compiuto un salto notevole dalle quote collinari da cui provengono al fondovalle. Nella zona in piano dove il fiume cammina piano si pratica la canoa, addirittura nei due sensi di “marcia”, cioè si può andare avanti e indietro, tanto è placido lo scorrere del flusso idrico; il Biferno si può dire che tra il Calderari e la piana dei Mulini è navigabile tanto è limitato il dislivello del suo letto se non fosse che la sezione è ridotta e la batimetria è insufficiente.


Solitamente l’asta di un fiume presenta caratteri diversi allontanandosi dalla scaturigine: c’è un tratto montano che qui non c’è, uno collinare e uno di pianura. Questi ultimi due, su quello iniziale ci siamo già soffermati, si distinguono fra loro, morfologicamente in quanto l’uno passa in una valle stretta e l’altro che parte dai piedi della diga del Liscione divaga, o meglio divagava avendolo costretto tra due consistenti argini, in un vasto ambito pianeggiante. Nella sezione collinare esso è equidistante dai versanti della vallata che essendo pressoché per intero stretta ha un fondo piatto appena sufficiente ad ospitare il passaggio del corso d’acqua; nella pianura del Basso Molise il Biferno, invece, si accosta una volta al rilievo su cui è ubicato Guglionesi, in riva sinistra, e un’altra volta, muovendo in direzione del litorale, a quello dove sta Campomarino, che è la sponda destra per cui non è simmetrico al territorio che si trova a solcare.

È opportuno, a proposito della superficie di “influenza” del Biferno, fare una precisazione che è la seguente: l’affermazione che tale fiume sia l’asse idrografico cui fa capo la fascia centrale della regione non è del tutto esatta rimanendo il Biferno nella parte finale senza un bacino che graviti su di esso. I corsi idrici di quest’area che sono brevi con esclusione del Sinarca, concludono il loro percorso direttamente nell’Adriatico (Mergolo, Tecchio, ecc.). Seppure non molto spesso, a causa della ristrettezza dello spazio concesso ad esso dalla vallata, il Biferno anche perché affiancato dalla Bifernina la quale gli contende la poca superficie del fondovalle, punto di osservazione privilegiato, è ben visibile fino all’invaso del Liscione in cui scompare per ricomparire superato lo sbarramento nell’unica vera piana molisana dove appare come una linea sottilissima, incapace di incidere sul paesaggio, perdendo così la centralità che lo aveva distinto in precedenza.


Il torrente Callora
Il Callora nasce in montagna, in località Scino. Qui per la quota che supera i 1.200 metri la neve si trattiene più a lungo e proprio in coincidenza con il suo scioglimento questo corso d’acqua registra le portate massime. Un idrometro posizionato immediatamente a valle dell’abitato, lì dove il fiume (il Callora è un fiume e non un torrente perché alimentato da sorgenti perenni) sbuca dal suo tratto superiore in cui corre in una gola e inizia a svilupparsi nella fascia collinare. Per quanto riguarda la parte in cui esso è incassato va detto che questa è l’unica porzione del fiume dove quest’ultimo non attraversa zone coltivate; financo in alto, ai lati del primo pezzo del suo corso si pratica l’agricoltura come rivelano i terrazzamenti e numerose aie circolari e pure il toponimo Masserie Scasserra, richiamando la presenza di coltivatori, ce lo ricorda.
Il paesaggio coincidente con la porzione dell’asta fluviale incassata è dominato prima dai pali eolici di monte Crivari e dopo dalla mole del castello longobardo. È una situazione particolare quella della «rocca Maginulfo», ma non rara nel comprensorio matesino, vedi Longano, nella quale borgo e struttura castellana rimangono distinti, non contigui, pur se vicini. Tale lontananza ha influito sull’abbandono del maniero feudale, a differenza di quanto è successo in altri casi con il castello, o almeno i suoi resti, che si è trasformato in palazzo nobiliare; la posizione isolata di questa fortificazione, venute meno le esigenze militari, ha provocato la sua riduzione a rudere. Roccamandolfi, che costituisce il fulcro visivo del contesto paesaggistico della media valle del Callora, solo nel nome che contiene la parola rocca porta con sé il ricordo della fortezza. Il paese sorge su un pendio sul quale le case si l’una sull’altra formando un agglomerato molto compatto e ciò lo rende assai pittoresco;

è una disposizione caratteristica quella a gradinata, che si riscontra in pochi casi (vedi Pesche definita da Francesco II la libreria del Molise); essa distingue questo centro dalla maggioranza dei comuni molisani i quali hanno il castello al vertice dell’insediamento. Per osservare il corpo idrico quando penetra nella gola, altrimenti non visibile, c’è un ponte sospeso raggiungibile pure dal Sentiero del Pastore, un itinerario che costeggia in alto il letto fluviale partendo dal punto in cui le greggi prima della tosatura facevano il bagno in una vasca lapidea naturale scavata dall’acqua. In questo luogo che è, poi, l’ingresso del nucleo abitato vi è un ponte che scavalca il Callora il cui ruolo di momento di passaggio è sottolineato da un’edicola votiva la quale si affianca ad una interessante fontana. Da ora in poi il corso d’acqua lascia il mondo del calcare per passare nell’universo delle rocce morbide, in specifico dell’arenaria.


Esso perde la sua rettilineità disegnando una curva in prossimità di Campodiciello, a seguito della spinta che riceve dalla sua sinistra idrografica dal rivo che scende da Coppola di Prete. Qui confluisce nel Callora anche il Rio, questa volta alla destra idrografica. Ci troviamo un po’ più sopra del punto dove il panorama comincia ad abbracciare Cantalupo, della località Le Crete. I due territori comunali di Roccamandolfi e di Cantalupo stanno uno a monte e l’altro a valle e questa è l’unica volta in cui nel Matese un ambito municipale non si estende dal piano alla vetta del massiccio montuoso. È qualcosa di simile a quanto succedeva a Castel San Vincenzo prima dell’unificazione di Castellone che stava più in basso, mentre S. Vincenzo al V. era sopra, con distinte, anche se spalla a spalla, comunità l’una legata all’economia agricola, l’altra a quella montana. Roccamandolfi è un centro pastorale, ma pure Cantalupo è interessato dal passaggio delle pecore sul tratturo,

così come dei pellegrini che si recano nel comune altimetricamente superiore per la festa di S. Liberato la prima domenica di giugno quando iniziava la transumanza. Il Callora con la curvatura descritta evita Cantalupo che di scorcio si vede per poco tempo seguendo il corso d’acqua e si inoltra nell’agro di S. Massimo, paese che rimane a lungo nell’orizzonte per raggiungere prima il Biferno che, intanto, nasce a Boiano il quale è un traguardo visuale del fiume, almeno Civita Superiore. Anche per tale aspetto, cioè per non avere in condivisione il fiume, si nota la separatezza tra Rocca e Cantalupo. In ogni caso il Callora che pur si avvicina al perimetro comunale di Cantalupo non sarebbe stato una linea di confine perché esso, per sua natura, non è mai, dalle scaturigini allo sbocco nel Biferno, un elemento di separazione tra entità municipali, forse in quanto non produce mai un sentimento di vera paura. Ben altra cosa sarebbe successa se esso non si fosse incurvato, rimanendo così rettilineo poiché abbreviandosi il percorso delle acque queste aumentano di velocità. Il Callora, il Quirino e la Lorda sono gli unici corpi idrici che sgorgano in altitudine per via del carsismo che connota questo gruppo montuoso per cui il loro tragitto per raggiungere la pianura è davvero lungo: senza le anse l’asse fluviale sarebbe troppo ripido determinando una corrente idrica assai veloce. Una ulteriore sterzata, molto più decisa della prima, il Callora la compie poco dopo aver toccato il piano. Si completa nello stesso tempo la serie dei paesaggi che il Callora contribuisce a caratterizzare: quello montuoso, quello collinare e, infine, quello pianeggiante.
A proposito della secca deviazione nell’andamento del fiume è da evidenziare per inciso che esso finora è stato perpendicolare all’Appennino, adesso ne diviene parallelo, non dirigendosi verso il mare come fanno gli altri fiumi dal Biferno al Trigno. Tutto nella conca di Boiano ha la medesima direzionalità, dal tratturo, alla statale e al Callora che si affiancano fra di loro in una stretta striscia di territorio. Il nostro fiume si presenta con un alveo ghiaioso che in estate è completamente asciutto. Sono i detriti trasportati dalle fasce altitudinali più elevate che si sono depositati che progressivamente ne sopraelevano il letto e ciò è dovuto al fatto che il fiume è impossibilitato a divagare lateralmente, costretto com’è da pareti spondali volute dall’uomo che ne bloccano i processi evolutivi i quali sono tipici dei corsi d’acqua di pianura. Dal punto di vista naturalistico il pezzo maggiormente significativo del Callora è quello in cui ha principio riconosciuto Riserva naturale regionale e gestito da Italia Nostra. Forse un’area protetta troppo piccola e che rimarrà un fatto episodico fino alla sua ricomprensione nel parco del Matese. Siamo fin quasi superato l’ambito di Roccamandolfi, e cioè per circa la metà dell’asta fluviale (Masseria del Rio) in un Sito di Importanza Comunitaria e Zona di Protezione Speciale. Il fiume è stato oggetto all’interno di un progetto Life di ripopolamento di gambero di fiume, i cui risultati evidenti si stanno ottenendo nel tempo.
Il Lago di Castelsanvincenzo

È un lago davvero particolare in quanto privo di immissario. Ciò si spiega con il fatto che le acque provengono dallo scarico della centrale idroelettrica di Pizzone, la quale è alimentata dall’invaso della Montagna Spaccata, posta più a monte, in territorio abruzzese. A sua volta il lago un tempo indicato come “a Santo Stefano al Volturno” serve per l’impianto di produzione di energia elettrica situato presso le Sorgenti del Volturno, un laghetto al quale segue la vasca di carico della grande centrale di Colli al Volturno. È, in definitiva, un sistema a cascata formato da tre salti quasi completamente indipendente dall’idrografia naturale. Così abbiamo che nel nostro lago sono pressoché assenti corsi d’acqua che vi sboccano dentro e gli unici apporti esterni sono, oltre alla derivazione di cui si è detto, le acque meteoriche dell’impluvio circostante.
Alla stessa maniera dell’immissario manca pure un vero e proprio emissario, non potendosi chiamare in tale modo il rivo preesistente alla realizzazione della diga. Vi è un vantaggio dal non essere connesso a corpi idrici presenti in natura che è quello di non essere soggetto a oscillazioni del livello delle acque, essendo costante l’apporto proveniente dalla centrale sovrastante e ciò non è di poco conto per lo sfruttamento turistico delle rive. Per comprendere meglio questa questione si pensi all’invaso del Liscione che, quando è in secca, ha le sponde melmose. Un ulteriore punto a favore della mancanza di immissari è che il problema dell’interrimento, il quale preoccupa per gli altri bacini del Molise, il quale richiederebbe il periodico dragaggio del fondo qui non c’è.


Si è fatto cenno all’afflusso all’interno di questo invaso delle acque di scorrimento superficiale del bacino imbrifero le quali trascinando con sé particelle di terra, a causa dell’erosione, potrebbero provocare nel tempo il riempimento del lago; nonostante sussista una simile eventualità non si è proceduto, diversamente da quanto si fece per il bacino del Liscione, alla piantumazione dei versanti che contornano il lago di Castel San Vincenzo di boschi di conifere, anche perché tutta l’area è sufficientemente boscata. Si continua il discorso dell’immissario per far notare che seppure nell’invaso in questione non confluiscono né uno né più corsi d’acqua se non che prende inizio qui un minimo rivo esso ha la forma allungata che è quella propria dei laghi originatisi da un fiume; in altri termini tali laghi hanno generalmente un andamento che appare essere la prosecuzione dell’asta fluviale. Il bacino di San Vincenzo al Volturno collocato com’è in un vallone segue nella sua disposizione la morfologia dei luoghi. Quindi ha un verso prevalente che è quello dell’avvallamento del suolo che con le sue acque, trattenute dallo sbarramento artificiale, esso riempie.

Nella direttrice secondaria, trasversale alla prima, vediamo che le opposte rive sono molto diverse fra di loro. Quella più vicina all’abitato di Castel San Vincenzo è pressoché rettilinea, mentre l’altra è molto frastagliata. Si individuano in quest’ultima due insenature intervallate da una sorta di promontorio e l’immagine che ne viene fuori è qualcosa che richiama i fiordi nordici. Oppure le si può pensare quali cale meridionali dove le acque sono ferme e ciò induce a fare il bagno, attività che viene praticata dai campeggiatori, turisti olandesi qualche anno fa, che trascorrono qualche periodo di ferie nell’area attrezzata adiacente e dai visitatori che permangono una giornata. La stabilità della quota del bacino idrico renderebbe possibile bagnarsi in ogni momento dell’anno, ma, è ovvio, che ciò avviene unicamente in estate, mentre nelle altre stagioni l’intorno del lago si presta alla sosta all’aria aperta, alla passeggiata, ecc. rimanendo il clima mite svolgendo il bacino idrico un ruolo termoregolatore. Tale regolarità della superficie del lago lo rende diverso dagli altri esistenti nel territorio molisano: si è già citato quello del Liscione e adesso si aggiungono gli invasi stagionali che si formano sui rilievi carsici come il lago di Civitanova e, per rimanere al gruppo Colle dell’Orso La Montagnola Molisana, il laghetto dei Castrati.

Si è ritenuto di dover fare questo richiamo perché, similmente ai laghi che si incontrano nelle zone in cui domina il carsismo, pure l’invaso di San Vincenzo può essere considerato un lago di montagna, ubicato, comunque, ad altitudine inferiore dei precedenti. È una fascia altimetrica quella montana la più ricca di conche lacustri nella penisola italiana e la loro dislocazione tra valli alpine (in prevalenza) li rende particolarmente suggestivi. Esse sono state oggetto di numerosi dipinti e sono state celebrate in tante poesie diventando così degli autentici oggetti di culto da quando si diffuse, siamo alla fine del XIX secolo, la passione per i monti e per l’alpinismo, inizialmente nelle èlites borghesi con estensione in seguito ai ceti popolari. Si tratta sempre, quelli decantati dagli artisti, di laghetti piccoli e il lago di Castel San Vincenzo lo è, di bacini idrici incastonati tra alte cime come accade a quello di San Vincenzo al Volturno sovrastato immediatamente dalla imponente catena delle Mainarde, di specchi d’acqua immersi in un ambiente incontaminato che, nel nostro caso, è quello del Parco Nazionale d’Abruzzo. Siamo di fronte ad uno scenario che suscita emozioni forti le quali, nel medesimo tempo, si stemperano nell’ammirare la tranquillità delle acque del lago la cui visione è arricchita dai riflessi delle emergenze montuose adiacenti che vi si rispecchiano.
La sensazione di pace che si respira, quasi il sentirsi in un luogo senza tempo, si accompagna a quella, per certi aspetti contrastante, di trovarsi in un punto simbolo dell’inizio della modernizzazione della regione in quanto quello di S. Vincenzo è stato l’antesignano degli accumuli d’acqua artificiali del Molise. Rinvia al fatto che esso venne creato in funzione della nascente industria idroelettrica e l’energia è il motore dello sviluppo della società contemporanea.
Il medio Biferno
Pur avendo una sua riconoscibilità all’interno del territorio regionale, l’ambito interessato al passaggio della prima parte del corso del Biferno non ha un proprio nome. Di conseguenza sembra non avere un’identità definita nonostante che sia riuscito ad occupare un autonomo spazio, per così dire, nella letteratura molisana: con le opere di Eugenio e Alberto Mario Cirese, padre e figlio, di Fossalto dei quali il primo ha composto poesie su questo fiume e il secondo ha raccolto leggende popolari. Neanche quando la regione è stata oggetto, a partire dall’ultimo dopoguerra, di suddivisione in comprensori per diverse ragioni (Consorzi di Bonifica Montane, Nuclei Industriali) non compare una denominazione sicura identificativa del contesto geografico in cui è compresa la valle mediana di questo fiume; del resto non c’è una

entità amministrativa la cui delimitazione coincida con il nostro areale, il quale, quindi, non presenta specificità in materia di gestione territoriale. Forse a determinare ciò deve aver concorso il fatto che in tale zona è compreso, in maniera organica, il capoluogo regionale che sembra aver intenzione di fagocitare il suo intorno includendolo nell’Area Metropolitana di cui tanto si parla. Campobasso, d’altro canto, per il suo ruolo di «capitale» della regione non può appartenere ad alcuna circoscrizione ristretta; per quanto riguarda la ripartizione in bacini idrografici si ha una conferma di questa non riconducibilità della città ad una definita unità territoriale trovandosi Campobasso a cavallo dei bacini del Biferno e del Fortore, un dono di ubiquità che non possiede, lo si fa notare, nessun altro centro molisano.
Non smentisce l’assenza di una chiara coscienza delle peculiarità del luogo da parte della comunità che qui vive, oltre che di incapacità di distinzione del circondario del medio Biferno come fatto a sé stante da parte di un osservatore esterno, neanche la constatazione che vi sono due Comuni che hanno l’appellativo connesso con il Biferno: Petrella Tifernina (dal latino Tifernus, Biferno) e Castellino sul Biferno. Se si considera che la maggioranza degli insediamenti posti lungo l’asta fluviale ha il nome legato al luogo (da Limosano a Ripalimosani, da Oratino (Laurentinum) a Spinete, da Pietracupa a Campobasso) non c’è da meravigliarsi nel richiamo “topografico” al Biferno di quei due abitati. Eppure alla vallata del Biferno ci dovremmo sentire tutti particolarmente legati collocata com’è baricentricamente nel territorio regionale;
è l’unico fiume per intero molisano se si escludono il Tappino e il Tammaro che non vengono considerati tali in quanto confluiscono in un’altra asta fluviale, rispettivamente il Fortore e il Volturno. Per essere, però, una precisa entità dal punto di vista politico, economico, etnico, ecc. il territorio che gravita su un corso d’acqua è evidente che necessiti che le due opposte sponde siano ben collegate fra loro. Invece i ponti erano ben pochi, quello delle “lavandaie” sotto Limosano, quello di Castropignano lungo la strada Garibaldi per Trivento, il ponte “regio” per raggiungere Frosolone. All’epoca, 1821, della visita del futuro Francesco II il ponte della “fiumara” alla confluenza tra Rio e Biferno non c’era tanto che la carrozza reale dovette guadare l’alveo. Non riuscì invece secondo l’aneddotica a S. Casimiro (Casimirro?)

convincere il traghettatore che pretendeva il pagamento ad aiutarlo ad attraversare il Biferno; il santo visto il rifiuto invocò che una frana (lanca in dialetto) portasse via con sé le case di S. Stefano, cosa che puntualmente avvenne. Bisogna immaginare quale fosse in passato la portata del fiume quando le sorgenti ancora non erano state captate e, più in basso, quando non c’era lo sbarramento del Liscione.

Il tratturo Castel di Sangro-Lucera nel momento in cui attraversa l’alveo si sdoppia in due: un ramo va a Campobasso sede di un importante mercato in occasione della transumanza e l’altro si dirige verso la taverna del Cortile, fondamentale snodo nella rete tratturale. Alla scarsa viabilità trasversale fa da contrappunto una nulla in senso longitudinale, cioè parallela all’asta fluviale per la ristrettezza del fondovalle.

Fu la Cassa del Mezzogiorno la quale perseguiva il sogno degli «assi di sviluppo» a costruire la Bifernina che trasvola con viadotti (non vi sono gallerie come nella gemella Trignina) da una riva all’altra del fiume con continuità. Questa arteria ha portato ad una inevitabile rigerarchizzazione dei tracciati viari esistenti e alla predisposizione di nuovi allacciamenti ad essa da parte dei nuclei urbani quali, il più antico, l’Ingotte, la Rivolo, la Fresilia e bretelle minori sia realizzate ex-novo (Casalciprano) sia frutto di adattamenti di percorsi stradali preesistenti (vedi Colledanchise). Oggi la Bifernina che pure negli anni ’70 era diventata un simbolo della modernizzazione della regione sta per essere superata coincidente il suo sedime con quello che dovrà occupare l’Autostrada del Molise anch’essa rispondente ad una visione che è quella di potenziare le connessioni tra Tirreno e Adriatico.
In entrambe le prospettive strategiche, quella della Bifernina e quella dell’Autostrada, queste arterie sono dei semplici canali che conducono ai poli produttivi; nello svolgimento del percorso peraltro non sarebbe possibile far accadere un bel niente in quanto in questo segmento del Biferno manca una piana alluvionale. Anche i Comuni più piccoli vogliono la loro microzona industriale e allora, pur nella ristrettezza delle superfici, se ne è fatta una a Lucito e una a Fossalto, quest’ultima però lungo una vallecola secondaria scavata dal torrente Fossaceca (toponimo molto azzeccato per una simile valle) nella quale a stento trova posto la Fossaltina. Si tratta, quelli della fascia intermedia del Biferno, di affluenti minimi che scendono rapidamente dai rilievi e entrano subito nel Biferno (l’Ingotte, il Rivolo, ecc., salvo l’appena citato Fossaceca); gli affluenti importanti stanno prima e sono il Quirino e il Rio.
Proprio l’assenza di cospicui episodi insediativi e la ricchezza di testimonianze storiche (mulini e centrali idroelettriche) rendono interessante l’ambiente fluviale spingendo negli ultimi anni ad intraprendere la pratica della canoa. Questa attività ludico-sportiva è alla portata di tanti essendo facile scendere nell’alveo non essendo incassato e potenzialmente fattibile in ogni stagione essendo il regime del fiume regolare in quanto alimentata da acque sorgive, regolarità, è da evidenziarsi, che spiega la presenza di numerosi mulini.

La vallata del Trigno, confine liquido con l’Abruzzo

Il Trigno presenta la particolarità che è formato da due tratti nettamente distinti fra loro per quanto riguarda la pendenza del corso d’acqua. Il primo, che coincide con il pezzo che ricade nella provincia di Isernia, ha un deflusso delle acque più veloce poiché in una ventina di chilometri passa da circa 1.300 metri della sorgente ai 500 metri nel comune di Bagnoli, mentre impiega ben 70 chilometri per raggiungere da questa quota il livello del mare. Per comprendere la singolarità di questa morfologia fluviale si può mettere a confronto con la situazione del fiume Biferno che nasce nella piana di Boiano a 500 metri di quota e si sviluppa per 80 chilometri fino alla costa. La nascita in altitudine del Trigno,
a differenza del Biferno che non ha un corso montano, porta con sé un maggior trasporto solido del fiume il quale determina il largo greto ghiaioso che si ammira nella Piana d’Ischia di Trivento determinando un paesaggio, per così dire, lunare. Il bacino del Trigno ha una forma particolare perché ha un disegno ad L e i due segmenti che lo compongono si congiungono proprio in quel punto in cui si registra il cambio di pendenza. Si è insistito su questa differenziazione delle pendenze, ma ciò non significa che pur se più bassa non sia significativa la pendenza anche nel secondo tratto, quello che si svolge nel territorio della provincia di Campobasso per quanto riguarda la sponda molisana:
l’andamento del Trigno anche qui, seppure in maniera più lieve, rimane pendente per cui non vi sono anse o meandri come invece succede (o meglio succedeva) nella parte terminale del Biferno. Va, inoltre, detto che l’ambiente in cui scorre il nostro fiume è quasi sempre montuoso, non solo il suo corso iniziale che interessa l’Alto Molise. Infatti, rimanendo nella sponda regionale, il Trigno tocca costantemente Comunità Montane, a partire da quella di Agnone per finire a quella di Palata a cui appartiene pure Montenero di Bisaccia dove c’è la foce del fiume. Lasciando perdere l’aspetto burocratico, quello dell’appartenenza a Comuni classificati montani, la fisionomia di questo fiume è di tipo montuoso in quanto il suo contesto
territoriale è caratterizzato da rilievi, mentre le pianure sono scarse (ad esempio quella dove sorge il santuario della Madonna di Canneto che è poco estesa) se si eccettua quella litoranea. I monti all’intorno, ad esclusione di quelli che formano il complesso m. Miglio, m. Cavallerizzo, m. Capraro, non sono, comunque, molto elevati rimanendo al di sotto dei 1.000 metri di quota come m. Lungo e m. Tre Confini (ovviamente si parla del Molise). L’ultima cima prima di arrivare alla fascia costiera dove la dorsale si abbassa, le montagne trasformandosi in colline, è Monte Mauro. In prossimità del mare il substrato che costituisce le emergenze collinari è il gesso e, perciò, sono nati stabilimenti per lo sfruttamento di questo minerale.
Sono visibili le miniere gessifere che sono allo scoperto così come le vecchie discariche dei residui di lavorazione di questo materiale dal classico colore biancastro o le cave ormai esaurite dove l’acqua piovana incide con facilità dei solchi. Il Trigno ha nella nostra regione diversi affluenti, il Castellerce, il Ponte Musa, ecc. Tra questi vi è il Verrino il quale viene a costituire, per le sue notevoli dimensioni, un autentico sottobacino. Alla vallata del Verrino, a sua volta, confluiscono altre vallecole secondarie quale quella del torrente Zelluso le cui acque erano consigliate dal prof. Cardarelli per la cura della pelle; esse sono connotate da elevata franosità che fa di questo bacino uno dei più minacciati in Italia dal dissesto idrogeologico.
Un altro affluente del Trigno è il torrente Rivo in agro di Trivento la cui forza erosiva ha provocato l’emergere di isolati spuntoni calcarei che sono dei veri e propri monumenti geologici (si prenda l’imponente Pietra Fenda) capaci di spazzare la monotonia del paesaggio collinare. Un’ulteriore curiosità legata al Trigno è che la sorgente di questo fiume, Capo Trigno, non è posta esattamente sullo spartiacque di separazione con il bacino del Sangro che, peraltro, è fatto da una linea contorta in cui i crinali sono intervallati con passi (quello che separa Vastogirardi con S. Pietro Avellana, quello dove è posto il centro abitato di Capracotta e così via). Inoltre, ancora parlando di spartiacque, vi è un luogo particolare in cui vi è l’incontro di più bacini fluviali, cioè il bacino del Trigno, del Volturno e del Biferno, che è il gruppo Montagnola-Colle dell’Orso, a testimoniare la complessità della idrografia del Trigno. L’irregolarità di questo fiume la si legge pure in una certa dissimetria dei versanti contrapposti non essendovi
corrispondenza tra i rilievi situati ai suoi lati: mentre in località Ponte S. Mauro corre nel mezzo di un’ampia distesa pianeggiante con assoluta omogeneità tra i terreni posti nelle opposte sponde, nei pressi di Salcito esso bordeggia le erte pendici del colle su cui è collocato questo paese avendo sull’altro versante un declivio più dolce. Complicato, in aggiunta, è l’andamento del fiume in senso longitudinale con un avvicendarsi di strettoie (sotto Roccavivara e Montemitro per fare qualche esempio) e zone dove si ha un allargamento dell’alveo (dove è stata realizzata la zona industriale di Montefalcone o quella di S. Felice del Molise, ma qui si può ritenere che si tratti di un addentramento della pianura litoranea). Infine, va citata la diga di Chiauci che trasformerà, insieme all’immagine paesaggistica, il meccanismo di trascinamento degli inerti che, depositandosi nel fondo dell’invaso artificiale non giungeranno più nel mare, contribuendo ai fenomeni in atto di restringimento delle spiagge.
I corsi d'acqua costieri


I corsi d’acqua nel loro tratto terminale, faticando a trovare lo sbocco nel mare ostruito dai cordoni sabbiosi, creavano delle zone palustri. Quegli alluvionamenti hanno potato alla formazione della striscia pianeggiante che va fino all’arenile e che prende inizio lì dove finisce la serie di colline, ultime propaggini dei rilievi del Molise interno; la riduzione delle pendenze fa sì che i corpi idrici depositino il materiale che hanno trasportato il quale accumulandosi determina la creazione della piana. Non è stata solo la presenza delle dune a ostacolare il percorso dei rivi come dei fiumi, ma pure gli inerti, sempre più fini a seconda della distanza dei rilievi collinari, che accumulandosi obbligano i corsi d’acqua a scavarsi una via nei loro stessi depositi. La velocità della corrente così diminuisce e con essa la forza di trasporto per cui l’idrografia assume una forma sinusoidale. Gli alvei ormai sono caratterizzati da continue anse e da rami morti. C’è una proporzione in tutto: la pianura è maggiore quando il fiume è di livello superiore, cioè il Biferno, il Trigno e il Saccione, allo stesso modo le paludi si ampliano in corrispondenza dei corpi idrici principali (per quanto riguarda il Biferno rimane il ricordo nei toponimi Pantano Alto e Pantano Basso). Se la barriera dunosa è, purtroppo, in molte parti sparita, ad interrompere il deflusso idrico si sono sostituite la strada e la ferrovia litoranee, nonostante i diversi ponti. Una ulteriore minaccia è rappresentata dai progetti di lungomare, quale quello sul litorale nord di Termoli dove vi è la Foce dell’Angelo.
Il Rio Vivo alla sua estremità compie una brusca curvatura in direzione sud quando si imbatte nella viabilità costiera rimanendo parallelo per un pezzo a quest’ultima e, quindi, al mare tanto che si deve ritenere che la sua foce si sia spostata verso meridione di qualche centinaio di metri. Per ovviare ai problemi connessi con gli impaludamenti, tra i quali era fortemente sentito nelle fasce litoranee italiane il pericolo della malaria, oltre che l’esigenza di recuperare terreni per l’agricoltura, oggi i più fertili, si eseguirono importanti opere idrauliche. Si procedette alla rettificazione dei corsi d’acqua che vengono ridotti a semplici canali; è una regolarizzazione che se, da un lato, va a favore della sicurezza idrica, dall’altro ha prodotto la distruzione dell’ambiente fluviale originario. Lavori che presero avvio con la legge Serpieri alla fine dell’ ‘800 e che sono proseguiti nel secondo dopoguerra. La cartografia attuale dell’IGM redatta negli anni ’50 del secolo scorso, ancora riporta il grande meandro del Biferno in località Rivolta del Re che, invece, è stato tagliato ed occupato dallo stabilimento FIAT il quale è nato nel 1970. Il cosiddetto Basso Molise non è, comunque, un ambito omogeneo presentando delle individualità, anche dal punto di vista delle problematiche.
Tra queste vi è la città di Termoli, peraltro l’unico centro urbano posto sul mare, la quale per le sue consistenti dimensioni ha causato trasformazioni significative dell’intorno territoriale di cui fa parte. Ha subito, di certo, alterazioni notevoli la rete idrografica e questo deve essere stato un processo molto lungo il cui esordio si può fari risalire al periodo del regno borbonico quando venne deciso l’ampliamento dell’abitato con il piano per il Borgo Ferdinandeo. Per ottenere una superficie piatta allo scopo di permettere una facile edificazione fu colmato il suolo interrando l’impluvio, probabilmente coincidente con l’odierna Scalinata del Folclore, in cui si raccoglievano le acque superficiali di questo comprensorio, altrimenti privo di scoli. Il deflusso, che era anche quello degli scarichi domestici, confluiva nello «scaricatoio», quel punto in cui sorge adesso il depuratore, il quale, dunque, conferma la destinazione del sito di terminale delle acque luride. Siamo nel bacino portuale dal quale deve essere stato allontanato ogni corpo idrico per evitare che i sedimenti che essi trascinano a valle possano contribuire all’interrimento del porto. Anche il torrente Rio Vivo deve aver subito la deviazione già descritta che lo dirotta in senso opposto a quello della struttura portuale per i medesimi motivi. Il porto è una infrastruttura di enorme rilievo, non esclusivamente per l’economia del posto, bensì nello stesso tempo per l’impedimento alla balneabilità della spiaggia vicina (di particolare valore perché spiaggia cittadina) e per il condizionamento all’idrografia.
L’espansione dell’area urbanizzata ha fatto diminuire le valenze paesaggistiche le quali sono rintracciabili unicamente nei lembi di naturalità superstiti; tra questi vi è il vallone Rio Vivo il quale costituisce quasi un corridoio che consente la interconnessione tra i valori dell’ecosistema costiero, per quanto soggetto alla pressione turistica, con quelli insistenti nella campagna che sta alle spalle. Per la cittadinanza è, innanzitutto, uno spazio a verde pubblico dove trascorrere il tempo libero. Nei terreni liberati, mediante la riconduzione del torrente in un alveo ben definito, dalla libera divagazione delle acque sono stati realizzati impianti sportivi e attrezzature per la ricreazione. Ciò è stato consentito dall’essere un suolo di proprietà comunale, proprietà derivate dalla sua appartenenza in precedenza al demanio fluviale alla stregua di quanto è successo in tante altre occasioni. Il Rio Vivo è stato rettificato per un pezzo a partire dal ponte dell’antica strada Adriatica e immediatamente a monte di questo per indirizzare l’acqua al di sotto della sua unica, stretta, arcata, lavori necessari per garantire la circolazione anche nei momenti di piena, evitando lo scalzamento al piede delle spallette. Si evidenzia il ruolo di tale arteria oggi declassificata a strada urbana, ma un tempo statale perché di collegamento nazionale, percorso viario che si discosta dal litorale sia per bypassare il nucleo abitativo, in passato assai ridotto, sia per evitare l’attraversamento del Rio Vivo quando la sua sezione si ampliava allargandosi la valle che lo ospita.

Il Fortore, un fiume che solo in parte interessa la regione
Il tratto di Fortore che interessa il Molise è quasi interamente occupato dall’invaso artificiale di Occhito che è uno dei più grandi d’Europa. Esso è nato per l’irrigazione del Tavoliere il quale proprio per la disponibilità idrica è potuto diventare una zona ad alta produttività agricola. Oggi che si fa più sensibile la consapevolezza di vivere una fase di cambiamenti climatici si intende costruire una nuova diga a valle della precedente trasformando, così, ulteriormente il corso di questo fiume. Si tratta della diga di Piana dei Limiti, per la quale si è avviata la procedura VIA, che dovrebbe sorgere proprio nel punto in cui il Fortore lascia la nostra regione. In effetti lo sbarramento in progetto non sconvolge l’assetto naturalistico originario del fiume, ma accentua l’alterazione che ha già subito questo corso d’acqua a seguito della realizzazione della diga di Occhito.
Quella del Fortore è una vicenda abbastanza consueta: la diga impedisce al fiume di arrivare in modo integrale al mare, quest’ultimo essendo stato sostituito dal bacino artificiale che sta all’interno. Il lago di Occhito sembra costituire lo sbocco finale del Fortore il quale qui, per certi versi, si esaurisce. A valle della diga esso diventa un fiume morto e il Progetto Life Natura, al quale aderisce per la Regione Molise, punta proprio alla rivitalizzazione di questo pezzo del corso d’acqua. L’invaso di Occhito è al confine tra il Molise e la Puglia e la linea di ciascuna sponda è estremamente variabile perché esso presenta numerose ramificazioni, formando quelli che in termini lacustri si chiamano seni. Poco prima di sfociare nel lago il Fortore riceve il contributo del Tappino, corso d’acqua interamente molisano la cui sorgente è nei pressi dell’omonima località vicina a Campobasso. Il Fortore può essere definito piuttosto che un semplice fiume, un autentico sistema fluviale i cui affluenti, come nel caso del Tappino, possono essere dei veri e propri fiumi.
Il Tappino, a sua volta, ha degli affluenti quali il Ruviato, il S. Nicola, il Carapelle, ecc. che, quindi, sono sub-affluenti del Fortore. Molti valloncelli secondari sono connotati dalla presenza di residui boschetti di querce che altrove sono spariti per far posto alle colture agricole. Il Tappino ha caratteristiche geomorfologiche proprie che lo rendono diverso dagli altri affluenti, ma si distingue anche perché raccoglie parzialmente le acque reflue del capoluogo regionale dopo che sono state trattate nell’impianto di depurazione posto sul torrente Scarafone. Le scaturigini del Tappino sono situate ai piedi dei due complessi montuosi di Monteverde e di Montevairano ambedue vicini ai 1000 metri di quota, una ubicazione molto differente da quella delle sorgenti del ramo principale del fiume che sono nella testata valliva di alture senza pretese, in territorio campano. Si tratta, quelli da cui nasce il Fortore, di rilievi collinari invece che montani i quali formano lo spartiacque con bacini idrografici del mare Tirreno e che sono caratterizzati paesaggisticamente dalla presenza di una lunga serie di pali eolici. Il fiume Fortore nella sua parte più alta assume più nomi in quanto origina da più rivi. Il Fortore molisano è attualmente un corso d’acqua modesto in quanto a portate, regolate come sono dalla diga di Occhito, ma impressionante per la larghezza dell’alveo.
Essa è dovuta al suo andamento che si può definire torrentizio il quale determinava in passato frequenti inondazioni. L’ultima è quella disastrosa del 2003 dovuta al rilascio di acqua da parte dell’invaso che non è riuscito a regolare le piene che si susseguirono quell’inverno. Tracce di antiche alluvioni sono le terrazze fluviali che connotano l’ampia superficie del demanio idrico. La forza devastatrice delle ondate di piena prima che si avesse l’edificazione dello sbarramento è rivelata dalla scarsità di ponti: quelli che interessano il Molise sono il ponte sulla strada che congiunge Colletorto a Carlantino, posto in un tratto di fiume stretto, lo stesso dove poi è stata impostata la diga e il ponte, questo ben più lungo, che congiunge S. Croce di Magliano alla Puglia in località Dragonara, dove peraltro vi è un impianto di frantumazione di inerti che venivano prelevati dall’alveo. I ciottoli fluviali non sono, però, quelli del Fortore, bensì quelli trascinati violentemente a valle dal torrente Tona che si butta nel nostro fiume esattamente in questo punto. A testimoniare la pericolosità del Tona è il fatto che esso costituisce confine regionale, allo stesso modo di altre barriere geografiche e cioè le catene montuose del Matese e delle Mainarde, l’una con la Campania e l’altra sia con l’Abruzzo sia con il Lazio, e il fiume Trigno sempre con l’Abruzzo. A differenza del Trigno così come del Biferno il Fortore non è interessato dal passaggio di una strada di fondovalle e ciò è dovuto al suo incedere irregolare che ha distolto pure dal proposito di creare una linea ferroviaria di congiunzione con la costa che, invece, è stata attuata più sopra (la strada ferrata tra Campobasso e Termoli che passa per Casacalenda e Larino). L’assenza di un’arteria viaria di grande comunicazione nelle vicinanze dell’alveo costituisce una condizione favorevole per la permanenza degli habitats fluviali; bisogna, poi, tener conto che le infrastrutture lineari rappresentano un ostacolo per gli spostamenti della fauna selvatica che si muove preferibilmente lungo l’asta dei fiumi i quali vengono ad essere dei «corridoi ecologici». Per la funzione che esso assolve all’interno della Rete Natura 2000 il Fortore è stato riconosciuto quale Sito di Importanza Comunitaria.
Il lago di Occhito

Per capire il significato dal punto di vista paesaggistico del lago di Occhito bisogna partire da una osservazione preliminare che è quella che esso è uno delle due realtà lacustri vere e proprie presenti nella nostra regione, l’altro è il Liscione. In verità, si dovrebbe ammettere che è quest’ultimo il bacino idrico propriamente molisano perché tutto interno al Molise e, invece, occorre riconoscere che Occhito, per le sue consistenti dimensioni che sono superiori a quelle dell’invaso di Guardialfiera, è sentito altrettanto come una componente fondamentale del nostro paesaggio. Date le dimensioni ridotte dell’ambito regionale questo grande specchio d’acqua ha un peso maggiore nella configurazione dell’immagine della regione rispetto a quello che ha per la Puglia con la quale lo condividiamo, detto diversamente, per ambedue questi territori esso è geograficamente al limite, costituendone il confine, per quello pugliese esso ne rappresenta un lembo estremo, mentre per il nostro esso risulta non distante dal suo asse centrale che è l’asta del Biferno, ricompreso nel Molise, appunto, Centrale. Il bacino di Occhito, peraltro, è enorme non solo in riguardo all’estensione della nostra regione, ma in sé stesso, trattandosi di uno dei massimi laghi italiani e europei.
Sempre con la specificazione che si tratta di un invaso artificiale. Artificiale, è doveroso specificarlo, non è un attributo negativo tanto che, se ci riferiamo all’aspetto ecologico, esso risulta ricompreso in due specifici Siti di Importanza Comunitaria, il SIC «Lago di Occhito» e il SIC «Valle del Fortore Lago di Occhito», ricompresi poi in un’unica Zona di Protezione Speciale. Scartato, quindi, il fatto che artificiale si contrappone, per quanto appena visto, a naturale rimane la differenza tra lago artificiale e lago permanente la quale dicotomia ci è utile per affrontare il tema della presenza di bacini idrici qui da noi. Una lettura, questa, che ci permette di capire l’incidenza che hanno gli specchi lacustri nel sistema percettivo e nella percezione stessa perché una cosa risalta nel contesto se essa è unica e, al contrario, non emerge nel contesto visuale in maniera forte se essa è una cosa usuale. Artificialità e permanenza dunque, per mettere a confronto le entità lacuali dicendo subito che nel contesto in esame hanno un importante carattere comune che è sia i laghi artificiali, Liscione e Occhito, sia quelli permanenti, il lago del Matese il quale, pur non essendo molisano, viene avvertito come tale, soffrono di oscillazioni della superficie idrica sia pure meno accentuata che in quelli temporanei. Il Liscione più di Occhito, va evidenziato, data la maggiore escursione la quota del fondo e quella del pelo dell’acqua la quale determina nei periodi di secca una emissione alla vista più estesa delle sponde; esse, denudate e evidentemente fangose come sono, non costituiscono un bello spettacolo.
Ad Occhito, invece, in qualche modo l’acqua immagazzinata, che è di circa un terzo superiore a quella del Liscione, si “spalma” su una superficie più ampia per cui pure quando diminuisce, la ritrazione dai bordi è minore, cioè si nota meno. Il lago del Matese anche se ha una certa stabilità è, comunque, anch’esso un bacino carsico per cui la massa idrica tende a scomparire, risucchiata dalla porosità del calcare di cui è formato il massiccio montuoso. Il carsismo ha quale manifestazione esteriore a volte la presenza di inghiottitoi che si aprono nelle doline dove viene inghiottita l’acqua frutto dello scioglimento delle nevi ed è il caso del Lago di Civitanova. Man mano stiamo lasciando il confronto tra artificiale e permanente e stiamo entrando in una diversa comparazione tra i bacini legata alla loro altitudine, la quale è utile per mettere in risalto una differente singolarità del lago di Occhito. Nel nostro Paese sono le Alpi il luogo dove vi è la stragrande maggioranza dei laghi ed anche nel Molise prima che venissero costruiti dalla Cassa per il Mezzogiorno gli invasi di Occhito e del Liscione tutti i laghi, o meglio i laghetti (salvo quello del Matese), si trovano in montagna; a gruppi, quello di Civitanova, quello di Carpinone e quello dei Castrati sulla Montagnola Molisana o isolati, quello di Castel San Vincenzo. Liscione e Occhito, al contrario, sono situati nella media collina, poco prima che si aprano le distese pianeggianti, rispettivamente, della costa adriatica e del Tavoliere e ciò ne fa un’eccezione che, sicuramente, dovette colpire i contemporanei, cioè coloro che vivevano in questa terra e chi la frequentava mezzo secolo fa, quando li videro apparire in una posizione così inconsueta oltre che di tale dimensione.
C’è da riflettere sul cambiamento che si ebbe nei confronti dell’altro mezzo secolo, il XX per chiarezza, quando gli sforzi della Nazione erano stati tutti diretti a eliminare l’acqua che si raccoglieva nei «pantani» (Alto e Basso a Termoli) così come nelle Fantine (a Campomarino dove l’acqua è salsa e a S. Giuliano di Puglia), per cui invasare le acque nella seconda metà del ‘900 in quanto ormai considerate “risorsa” probabilmente ebbe delle ricadute non da poco sull’immaginario collettivo. È la modernizzazione, bellezza si potrebbe sintetizzare in questa maniera parafrasando una celebre frase. Sempre rimanendo sui riflessi psicologici di queste nuove distese acquee che influiscono sulla percezione, si rileva che nell’osservare il paesaggio che esse vengono pesantemente ad influenzare non si può non andare con la mente alle trasformazioni paesaggistiche che si determinano nelle piane, un tempo aride, pugliesi e molisane, al servizio delle quali esse sono state volute. Infatti, si tratta di bacini innanzitutto, per l’irrigazione e non più a scopo idroelettrico il quale aveva spinto in passato a formare raccolte d’acqua, Campitello sul Matese e Castel San Vincenzo sulle Mainarde. I rimandi del pensiero da un luogo all’altro, dal Liscione alla fascia pianeggiante costiera, da Occhito alla piatta superficie del Tavoliere, sono ciò che i teorici della «psicologia dell’ambiente» definiscono l’effetto del “qui e là”, dello stare in un posto e contemporaneamente di sentirsi pure in un altro. Il valore attribuito a questi due laghi dalla comunità, che li rende anche percettivamente più significativi, è l’essere pure dei serbatoi di acqua potabile che dissetano i popolosi centri della pianura. Proseguendo sull’abbrivio che si è preso, essi sono, per certi versi, carichi di valenza semantica per l’essere il simbolo, ben leggibile nel paesaggio, dello «sfruttamento» delle risorse della montagna, perché qui vi sono le sorgenti a favore delle aree pianeggianti.
L'invaso del Liscione

I fiumi, o meglio le loro vallate, favoriscono le comunicazioni, non perché navigabili e qui non lo sono, bensì in quanto permettono la penetrazione in territori con morfologie complicate, altrimenti non superabili, se non con percorsi tortuosi. È il caso del medio Molise dove non vi sono spazi pianeggianti ad eccezione del fondovalle formato dal Biferno. In questo senso il corso d’acqua gioca un ruolo decisivo, al quale, però, se ne accompagna anche uno negativo che è quello di separare le aree che stanno ai suoi opposti lati. Quando poi il corpo idrico da fiume diventa lago le cose, è evidente, peggiorano, accrescendosi la distanza fra le sponde. I ponti non bastano più, quello di Ponte Liscione addirittura viene interrotto il suo sedime venendo assorbito dal manufatto della diga per cui non c’è più continuità nel collegamento tra Acquaviva C. e Larino. Al posto del ponte per scavalcare la distesa acquea dell’invaso occorrono allora i viadotti; in effetti quello che c’è, ed è l’unico, posto sulla direttrice Guardialfiera – Casacalenda forse non sarebbe stato necessario poiché si trova all’inizio del bacino lacustre dove il livello dell’acqua è basso, tanto che conserva la sua funzionalità il ponte preesistente. Il ponte della Reginella, non si può fare a meno di citarlo, era da tempo ridotto a rudere. Il viadotto, per l’altezza dei suoi piloni, costituisce un’immagine prepotente che comprende pure i bracci con i quali si innesta nella superstrada; e sì, i ponti erano destinati esclusivamente all’attraversamento dell’asta fluviale, mentre questi che sono degli svincoli sono impiegati oltre che per superare il corso d’acqua per allacciare la viabilità minore alla fondovalle.
Su viadotto, in verità 2 e molto lunghi, è anche la Bifernina nel tratto coincidente con l’invaso: all’epoca della loro costruzione, ma in effetti ancora oggi, dovettero apparire ai molisani opere estremamente ardite e meravigliose. Erano, un po’, il simbolo della modernizzazione che stava interessando anche la nostra regione. Questa arteria, proprio per i suoi viadotti, attualmente è sotto esame e si riaffacciano ipotesi alternative di tracciato che propongono di farla correre appoggiata a qualcuno dei versanti collinari che delimitano il lago. Una conseguenza ipotizzabile di tale spostamento sarebbe potuta essere quella della costruzione ai suoi fianchi di strutture ristorative e ricettive come è avvenuto in altri pezzi del suo percorso. Qui più che altrove per la piacevolezza della sosta in prossimità dello specchio lacustre ed è plausibile pensare che sarebbero potuti sorgere, serviti dall’infrastruttura viaria, residence turistici con “vista lago”. Nonostante la bellezza di questa realtà lacuale è poco comprensibile il fatto che non vi siano case-vacanza, se non ville come nei maggiori laghi d’Italia, per godere di tale visione, della luminosità dell’aria per via della luce solare che si rispecchia sulla superficie acquea. Non c’è un posto, salvo Occhito, nel Molise, in cui vi sia un fenomeno simile che rende i luoghi, per certi versi, fantastici. Una breve digressione per prefigurare un futuro che per lo stato delle finanze pubbliche non si realizzerà presto o, forse, mai in quanto la direttrice lineare che segue ora la Bifernina permette un risparmio di tempo. È da aggiungere rimanendo nel tema del richiamo turistico del lago che neanche a Guardialfiera o in qualche punto, una curva, delle strade che raggiungono Larino oppure Casacalenda, alla stregua dei point of view americani, si è pensato di predisporre dei belvedere quali attrezzature turistiche per apprezzare il panorama (dall’interno dell’abitato di Guardialfiera,
comunque, se ne colgono degli scorci). In altri termini si constata che finora non è attecchito il turismo lacustre. Vediamo adesso il manufatto fondamentale, quello che ha dato origine negli anni ’70 del secolo scorso al nuovo assetto dell’area, un tempo una valle fluviale ordinaria, solo più grande delle altre perché ospitava il passaggio del maggiore corso d’acqua della regione. Stiamo parlando dello sbarramento che ha provocato l’invasamento del Biferno. Nonostante che abbia un ruolo decisivo la diga non è un’opera particolarmente appariscente. Infatti, l’essere una diga in terra, rivestita con un manto erboso la mimetizza quasi nel paesaggio al quale si assimila meglio di una costruita in cemento armato. In calcestruzzo cementizio che ingloba l’armatura in ferro la quale ne costituisce l’anima, come si conviene alle strutture in c.a. è, invece, la torre piezometrica dalla forma assai particolare che emerge dal pelo della massa idrica invasata; e il punto in cui si trova è quello nel quale la colonna d’acqua è più alta e ciò si deve al fatto che qui il preesistente alveo del fiume ormai subacqueo, abbassandosi esso, ovviamente, man mano che procedeva verso la foce, era a quota meno elevata. Attraverso le manovre degli organi di scarico, anch’essi di notevole visibilità, si fa defluire l’acqua dal fondo del bacino, azionando lo sfioratore collocato nella sezione superiore del canale laterale al corpo della diga, unicamente in occasione delle piene.
Garantire lo scorrimento delle acque nel fiume che riprende a camminare ai piedi dello sbarramento è essenziale per assicurare il Minimo Deflusso Vitale che equivale a dire la vita acquatica; a fasi alterne vengono previsti per questo segmento finale del Biferno una vasca di laminazione da posizionarsi all’uscita dell’opera di svasamento dei quantitativi d’acqua in eccesso per limitare ulteriormente gli effetti dell’ondata di piena e la canalizzazione del fiume, adesso pluricorsuale che verrebbe costretto in un unico alveo delimitata da grossi argini. Dai molteplici bracci fluviali, caratteristici di alcuni corpi idrici di pianura, si passerebbe ad un unico, annullando le differenze morfologiche tra i settori del fiume a monte quando si inserisce nella fascia, collinare e a valle della diga, giunto ormai nella piana del basso Molise, la quale diga fa da ripartizione tra questi due diversi ambienti. Ulteriori interventi antropici pensati per l’area sottostante lo sbarramento, accanto all’impianto di potabilizzazione, sono una centrale idroelettrica che sfrutti il salto che fanno le acque scaricate dall’invaso e la stazione di pompaggio per il travaso delle acque dal Liscione ad Occhito, una sorta di interconnessione.

Il Trigno, fiume tra Abruzzo e Molise
Il Trigno, stiamo parlando del suo tratto mediano e non solo, escludendo quello che precede la confluenza con il Verrino e un piccolo pezzo finale, dunque per una lunga parte del suo corso, costituisce il confine regionale. Un confine, in verità, incerto perché il fiume è portato a spostarsi nel suo largo letto dall’asse centrale ora verso una sponda ora verso l’altra. Non è una osservazione da poco quella che il Trigno stabilisce il limite di separazione tra regioni contigue perché nel Molise non vi sono situazioni simili in quanto il Fortore solo per un breve segmento separa il Molise dalla Puglia, nonostante sia definito interregionale al pari del Trigno nella ripartizione ufficiale dei bacini idrografici. C’è un’ulteriore anomalia a proposito della divisione tra il territorio molisano e quello abruzzese ed è che, invece, il nostro corso d’acqua non rappresenta una barriera nell’organizzazione diocesana; infatti la diocesi di Trivento scavalca il fiume estendendosi nelle province de L’Aquila (Castel di Sangro e altri) e di Chieti (come S. Giovanni Lipioni fronteggiante Roccavivara). Non è l’unico caso qui da noi di ambiti diocesani infraregionali in quanto c’è stata fino a pochi decenni fa anche quella di Benevento che comprendeva pure Cercemaggiore; le differenze con Trivento sono che, la prima, la meno significativa, la sede vescovile è nella nostra regione, la seconda, non vi sono ostacoli orografici, quali potrebbero essere un monte oppure, appunto, un’asta fluviale, a rendere difficili le comunicazioni tra la sede arcivescovile di Benevento e le aree molisane ad essa appartenenti.
Rimanendo sempre nel tema delle linee di distinzione fra diocesi rileviamo che tra quella di Trivento e quella di Campobasso c’è in mezzo un grande bosco, denominato Pietravalle, invece il Trigno non rappresenta un elemento di divisione, a differenza di quanto sarebbe da aspettarsi perché una distesa boschiva sembra meno difficile da attraversare di un corso d’acqua. Non è una questione unicamente di diocesi in quanto essa ricalca il perimetro del municipio romano di Terventum; è una faccenda, quindi, lunga oltre 2.000 anni e a questo proposito ciò che è più sorprendente è che questo piccolo centro ha avuto una forza di aggregazione capace di far convergere su di sé territori posti oltre il Trigno che, in passato prima della captazione delle sorgenti, aveva una notevole portata. Finora abbiamo parlato genericamente dell’Abruzzo, ma per spiegare questo legame storico dobbiamo evidenziare che il versante abruzzese che costeggia il Trigno ha caratteristiche del tutto diverse dal resto di quella regione. Il Sangro segna il passaggio tra due aree, l’una a sud l’altra a nord dello stesso, l’una di tipo collinare e medio montuosa, l’altra che alle pianure costiere vede succedersi in modo quasi repentino importanti massicci montani (la Maiella, il Gran Sasso e i Monti della Laga); l’area più meridionale è simile per caratteri fisici e per orientamento economico con la porzione di Molise che affaccia sul Trigno.
C’è, inoltre, una omogeneità storica, specie se ci riferiamo all’età antica, perché si trattava sempre di popolazioni sannite (caraceni o frentani che siano) su ambo i lati del nostro fiume. Una vallata vera e propria quella del Trigno con connotati geografici, naturalistici e insediativi comuni, delimitata dalla parte della riva molisana da una serie di montagne che comprende monte Lungo, monte Rosso e monte Mauro, mentre da quella abruzzese la quinta montuosa posta fra il Campo e Castel Fraiano (m. 1412) è a cavallo tra la valle del Sangro e quella del Trigno. Quest’ultimo seppure non fattore di separazione non è stato, comunque, una componente ambientale attrattiva; al contrario esso è stato un elemento repulsivo per la presenza antropica. È stata la costruzione della superstrada di fondovalle, la Trignina, l’innesco del processo di creazione nella piana fluviale di attività produttive e di servizi per la ristorazione. Nella porzione centrale dell’asta del Trigno le pianure sono sostanzialmente collocate sulla sponda molisana dove sono stati realizzati i piani per insediamenti produttivi di Trivento, Montefalcone e Mafalda, il fiume essendosi addossato alla riva opposta. Tali zone industriali sono legate, va evidenziato, tanto all’esistenza di aree pianeggianti quanto al passaggio dell’arteria di grande comunicazione di cui si è detto. Lungo il Trigno c’era, in effetti, già un avamposto umano che anch’esso sfruttava un pianoro ed è il santuario di Canneto, importante dal punto di vista strategico poiché qui si svolgevano accorsate fiere.
Il Trigno ha risentito della modernità prima ancora dell’apparizione della fondovalle essendovi sorta, in agro di Trivento, una centrale idroelettrica; essa forniva elettricità per l’illuminazione pubblica e pure per l’azionamento dell’antico pastificio Scarano il quale trova posto nell’abitato di Trivento e non, come succedeva altrove, vicino alla fonte energetica. Il letto del fiume, in specifico in prossimità dello sbocco dei torrenti che vi affluiscono, è da sempre sfruttato per la produzione di sabbia e ghiaia per le costruzioni. Diversi frantoi, dei quali alcuni in disuso (quello della ditta Antenucci) e altri in funzione (quello dei Fratelli Ferrara e dell’azienda Marmi Rossi) costellano il percorso di questo corpo idrico. Siamo di fronte ad un alveo sovralluvionato per la quantità di inerti che vi si depositano, aggiungendosi a quelli trascinati dalle acque in qualche modo impetuose dell’alto corso i materiali che esso erode dai fianchi delle gole in cui si infila (presso Trivento e presso Roccavivara). Il Trigno, infatti, ha un caratteristico andamento che lo distingue dagli altri principali corsi d’acqua molisani in quanto vi è un’alternanza di pezzi incassati e zone dove vi è un allargamento dell’alveo e non la classica sequenza che porta dal tratto montano con sezione ristretta, man mano verso l’ambito collinare e, poi, pianeggiante per cui progressivamente il letto si amplia. Il fiume ha perso nel tempo la sua capacità di scavare i versanti a causa della riduzione delle sue portate per via della captazione delle sorgenti, della Diga di Chiauci e della Traversa di San Giovanni Lipioni e, così, il maggiore consistente apporto solido è rappresentato dal reticolo idrografico minore che forma alla confluenza con il Trigno quasi dei corridoi di deiezione.
Il torrente Tappone

È un’area di grande interesse per i valori storici, naturalisti e paesaggistici presenti. Tra gli elementi che concorrono a questa ricchezza vi è sicuramente il fiume Tappone che è dotato di valenze culturali e ambientali notevoli. Non si tratta di una semplice sommatoria di «beni», in quanto essi sono legati a formare un autentico sistema. Il Tappone ha le proprie scaturigini nelle vicinanze del centro termale (il quale purtroppo non è ancora funzionante) Tre Fontane; le proprietà di queste acque minerali sono conosciute da tempo, ma l’idea di realizzare le terme è recente e, del resto, l’interesse per simili strutture ha avuto un incremento ovunque, negli ultimi decenni. In verità, già ad Altilia erano presenti complessi termali i quali sono, in qualche modo, l’antecedente di ciò che è stato costruito in località Tre Fontane. A favorire la nascita di tale impianto che sfrutta le acque delle sorgenti del Tappone, una delle poche del Matese, montagna carsica in cui sono rare le risorgive idriche in quota, vi è la strada che attraverso il passo Crocella scavalca la montagna. A questo proposito va evidenziato che le catene montuose in passato non costituivano un intralcio pesante alle relazioni tra i due opposti versanti, cosa che, invece, si verifica oggi perché i nuovi mezzi di trasporto richiedono strade tendenzialmente rettilinee.
Le acque oligominerali delle Tre Fontane oggi vengono imbottigliate in uno stabilimento posto a valle. Nel suo tratto terminale il nostro fiume prima di confluire nel Tammaro incontra il tratturo. Incontrare il tratturo, comunque, non significa incontrare i pastori che si muovono lungo la pista tratturale in primavera e in autunno per la transumanza mentre nelle altre stagioni è vuoto, privo di presenze umane e animali. Nell’età contemporanea è quasi incomprensibile la ciclicità delle attività. Il tempo discontinuo è rimasto tipico solo dell’agricoltura e adesso si è aggiunto il turismo, quello balneare e quello legato alla neve. Dunque il Tappone svolge la funzione di abbeveramento delle greggi due volte l’anno; la sosta delle pecore transumanti non dura, però, un attimo, ma, di certo, lo stazionamento si prolunga per qualche giorno con i conduttori degli armenti che si ristorano nelle tre taverne presenti nell’agro si Sepino, non distanti dal nostro corso idrico. Per comprendere la lentezza del cammino sul tratturo bisogna riflettere sul fatto che la transumanza è un fenomeno più vicino al nomadismo che all’alpeggio, il quale è presente pure nell’area matesina, poiché non si tratta di un semplice spostamento tra il punto d’inizio e quello finale, bensì di una combinazione dell’incedere con il brucare, attività che si svolgono insieme. Proprio come i nomadi che si allontanano da un territorio dopo averne esaurito le risorse. Il tratturo è connesso con Altilia trasformandone la ragione d’essere originaria che è quella di un castrum, cioè di un accampamento militare di cui conserva l’impianto planimetrico, a servizio dell’occupazione romana del Sannio. L’attraversamento del percorso tratturale che è anche sfruttato per il trasporto di merci porta l’antica Saepinum a diventare un centro mercantile.
Gli scambi avvengono nel foro garantiti dalla presenza di un tribunale, con l’amministrazione della giustizia che si svolgeva vicino alla basilica. Tra i traffici c’è pure la lana che viene lavorata nella gualchiera che sfrutta le acque del Tappone, ancora una volta, quindi, protagonista della vita del comprensorio. Le medesime acque servono per la Cartiera, anch’essa adiacente al tratturo, riportata fin dal XVII secolo nelle cartografie del demanio tratturale (la mappa del Capecelatro). Sepino è una terra ricchissima di acque che vengono utilizzate quale forza motrice di numerosi mulini, alcuni dei quali situati sulle sponde del medio corso del Tappone (il mulino Volpe e il Vignone). Ormai sono strutture obsolete e, alla stessa maniera, è superato anche il novecentesco stabilimento molitorio dotato di un motore a vapore che sorgendo non troppo lontano dal Tappone fa da contrappunto ai mulini tradizionali, almeno visivamente; la sua chiusura è emblematica delle difficoltà dell’industria agroalimentare molisana. Sul fiume, inoltre, ci sono i resti di una piccola centrale idroelettrica, a monte dei mulini citati; pure se minuscoli, impianti simili sono stati essenziali per garantire l’infrastrutturazione energetica di zone rurali come questa altrimenti dimenticate dalle altre aziende elettriche. Ancora sopra si trova il lanificio il quale si sovrappone, facendola scomparire, la gualchiera di cui si è detto visibile in una stampa di metà ottocento.
Il lanificio Martino si avvale della medesima concessione all’impiego di risorsa idrica di un preesistente mulino il quale continua a restare in azione mediante l’acqua in uscita dal lanificio. È questa una caratteristica precipua dell’intera asta fluviale, cioè quella di una utilizzazione in serie dell’acqua. Siamo di fronte ad un sistema ininterrotto di salti dovuto alla disposizione in sequenza di lanificio, mulino, centrale idroelettrica e, ancora, 2 mulini e infine la cartiera. Vale la pena precisare che insieme ai fabbricati dove trovano posto i macchinari, volta per volta, per la lavorazione della lana, per la produzione di energia, per la molitura, per la fabbricazione della carta, bisogna considerare le opere di presa con i relativi sbarramenti, i canali di adduzione (in tubatura nel caso del lanificio) e quelli di restituzione, le vasche di accumulo; ciò determina una completa artificializzazione del Tappone. Le sue portate sono a tal punto costanti che hanno permesso al lanificio, il quale si serve dell’energia idraulica per mettere in moto la turbina, di reggere la concorrenza fino al 1971. Non è stata, comunque, solo la fonte energetica a impedirgli di reggere in seguito il passo delle fabbriche moderne, quanto piuttosto i problemi dei collegamenti essendo il lanificio raggiungibile scavalcando un ponte a schiena d’asino, il suggestivo ponte di S. Pietro, sul Tappone, non idoneo per il passaggio dei camion. In definitiva, è lecito definire questo fiume nel suo complesso un monumento di archeologia industriale o, meglio, un parco scientifico-tecnologico-storico e naturalistico per la molteplicità degli interessi che ad esso si connettono.
Il fiume Verrino

Questo fiume presenta tanti elementi di grande interesse paesaggistico, dei quali ve n’è uno davvero particolare, non riscontrabile negli altri corsi d’acqua molisani. Esso è costituito dalle «ramere» le quali non sono significative solo perché testimonianze di archeologia industriale, ma pure in quanto “segni” rappresentativi di una civiltà, ormai scomparsa. Per tale risvolto, cioè per la capacità delle cosiddette ramere di rievocare una particolare organizzazione economica, sociale e territoriale esse costituiscono delle “emergenze” forti del paesaggio. In questi stabilimenti, sono 2, avveniva la trasformazione del rame in lamine attraverso la battitura, le quali poi nelle botteghe presenti nel centro abitato venivano sagomate in modo da formare oggetti. Era talmente importante questo comparto che gli agnonesi erano identificati nel resto della regione con il nomignolo di «callarari», da callara, caldaia, uno dei prodotti più diffusi presenti in ogni casa. L’economia legata al rame è una faccenda singolare tanto da non consentire equiparazione con le altre attività economiche presenti nel panorama regionale.
La lavorazione del rame impone la formazione di una filiera in cui vengono coinvolti gli operatori delle varie fasi delle quali si compone il processo produttivo che porta alla fabbricazione dei manufatti cui succede, quale passaggio obbligatorio, quello della vendita che, perciò, è un passaggio, il finale, della catena. In definitiva, è un sistema che richiede il coordinamento dei diversi momenti il quale può essere assunto da una figura specifica, una sorta di imprenditore «capitalista» ante litteram, oppure ad acquistare funzioni, in qualche modo, direttive è una delle persone che partecipa a questo articolato ingranaggio, il proprietario della ramera che, di norma, coincide con colui che compra la materia prima, l’artigiano, il mercante. Si vuole sottolineare l’eccezionalità del settore in esame rispetto al resto dei rami economici presenti nel Molise, per il suo essere legato all’intervento di capitale commerciale, quindi di chi investe senza che vi sia il preventivo ordinativo dei beni prodotti. È quanto caratterizza l’Età Mercantilistica, il periodo della storia moderna che si fa precedere nella manualistica scolastica al Capitalismo, del quale ha in sé i prodromi per la rilevanza che nelle attività ha l’investimento finanziario.
Durante il Mercantilismo e a seguito dello stesso si sviluppano, in tutta Europa, le città ed Agnone ha ben titolo, supportato da riconoscimento regio nel XV secolo, di essere considerata una autentica entità urbana. La ramera rimanda a tutto ciò ed essa, anzi, contiene segnali dell’affacciarsi del capitalismo che qui, però, non si svilupperà: nella ramera Cerimele vi è l’alloggio per i salariati, contadini, poiché la paleo industria si insedia nelle campagne, vicino ai corsi d’acqua che forniscono la forza motrice (le ramere sfruttano l’energia idraulica), che vi prestano il proprio lavoro non continuativamente. In Agnone l’artigiano ramaro lavora nelle botteghe che sono annesse all’abitazione, peraltro molto caratteristiche, e tale fatto non va confuso con l’industria a domicilio, questa sì un modello di produzione di tipo capitalistico. Se sono lontani dalla logica del capitalismo i laboratori artigiani agnonesi non possono però ritenersi un retaggio medioevale per l’assenza di una corporazione, tipica forma associativa di quell’epoca, nonostante la concentrazione di botteghe nel nostro centro (nello Statuto municipale del 1400 si parla unicamente della Corporazione degli orafi). Una differente componente del patrimonio culturale della valle del Verrino è la cappella rurale di S. Lucia, altrettanto carica di significato delle ramere, la quale si colloca in un punto simbolico trovandosi quasi al centro dei 22 chilometri dell’asta fluviale. Inoltre, tale luogo è l’inizio del tratto in cui il Verrino costituisce il confine tra territori comunali, da un lato Poggio Sannita e dall’altro Castelverrino e Pietrabbondante; per quanto riguarda i primi due il corso d’acqua in questione è il pezzo del perimetro amministrativo più lungo.
Quanto appena detto non può essere privo di significato cioè che quando esso corre all’altezza del capoluogo altomolisano il cui ambito si estende su ambedue i lati della valletta questo fiume non rappresenta una linea di divisione, mentre successivamente diventa valicabile con difficoltà e, nel medesimo tempo, la zona perifluviale è meno ospitale. L’attraversamento era garantito dal ponte Duca Petra, la famiglia feudale di Caccavone del periodo vicereale. La lunghezza dell’affaccio di Poggio e di Castelverrino, che già dal nome rivela il rapporto stretto del comune con il corso idrico, è un indizio del legame, comunque, con il Verrino. S. Lucia è da ritenere che stia lì perché il posto è un momento ancora propizio all’insediamento umano e i monaci vi fondarono nell’alto medioevo una piccola badia per colonizzare l’area, con annessa chiesetta rifatta nel ‘700. Qui nel Verrino confluisce il Vallone Zelluso le cui acque erano considerate, lo stesso Antonio Cardarelli lo sosteneva, utili per la cura delle malattie della pelle (la «zella» ne è una); in più, a sottolineare la valenza del sito, questa volta sotto l’aspetto semantico, vi è in prossimità dell’edificio di culto un piccolo casino di campagna posseduto dal dott. Cremonese, lo scopritore della Tavola Osca. Non è casuale, di certo, la vicinanza con ritrovamenti archeologici nell’intorno (a Masseria Cupella, a Masseria Vecchiarelli, ecc,), allocati, poi, nella biblioteca comunale che attestano una lunga frequentazione antropica. Finora abbiamo parlato di risorse di natura culturale, ma il fiume è appetibile, oltre che per ragioni intellettuali, pure per questioni meramente ricreative (senza trascurare il sentimento del sacro evocato dalla chiesa di S. Lucia): Custodina Carlomagno in un suo libro dice che «gli aragonesi amano bagnarsi nelle sue acque», specie nella località «smeraldo» chiamata così “per il riflesso del verde degli alberi” sulla superficie del fiume. Il volume è del 1984, anno in cui hanno inizio i poderosi lavori di arginatura del’alveo, la quale ha alterato il paesaggio fluviale; non hanno, comunque, tali opere compromesso l’ecosistema tanto che da S. Lucia in giù il Verrino è stato successivamente riconosciuto Sito di Interesse Comunitario per le sue pregevoli qualità naturalistiche.
Il fiume Tappino

Il Tappino nasce non dall’Appennino come invece avviene per il Biferno e il Volturno, ma analogamente al Trigno da un gruppo montuoso che lo precede che nel caso di quest’ultimo fiume sono i rilievi di m. Capraro e m. Miglio, il quale divide il suo bacino da quello del Vandra. Il Tappino (e di lì a poco il Fortore) trae origine da una sorta di collana di montagne di media altezza, supera i 1000 metri solo m. Saraceno, m. 1086, che antecede la catena appenninica la quale qui è rappresentata dal Matese: tale, per così dire, antiappennino per taluni prende il nome di Monti del Sannio, termine che si giustifica perché comprende emergenze montane sulle cui cime ci sono importanti fortificazioni sannitiche, da quella, la principale e la prima, di Montevairano, passando per quella di Monteverde al citato m. Saraceno. Questa serie continua di groppe si distingue dal massiccio del Matese non solo perché non è sulla dorsale appenninica, bensì ben all’interno verso l’Adriatico (anche se, bisogna dire, sulla linea mediana della Penisola, mentre il Matese è spostato ad ovest, e fungendo allo stesso modo del Matese da spartiacque tra i due mari, in quanto dal nostro sistema montuoso intermedio trae origine pure il Tammaro (che è un corso d’acqua tirrenico) ma pure poiché il suo substrato geologico è un miscuglio di calcareo, argilla e arenaria, mentre quello matesino è di natura eminentemente carbonatica. Anche le altitudini che raggiungono sono ben differenti, raddoppiandosi mediamente nel caso del Matese.
Quale ultima distinzione si rileva che a differenza del massiccio matesino che forma una ideale linea dritta e senza interruzioni significative, la congiungente tra Montevairano, Monteverde e m. Saraceno ha un andamento sinuoso ed è interrotta da valli (quella delle sorgenti del Tappino tra le propaggini di Montevairano e Monteverde, quella dove sta il crocevia delle «quattrovianove» tra quest’ultimo e il colle della Castagna che è la prosecuzione di m. Saraceno). In definitiva, un sistema di piccoli monti indipendente dal baluardo, è proprio questa l’immagine del Matese, di spartiacque principale. Quindi il Tappino per via delle quote limitate delle montagne dalle quali deriva, condizione non adatta per avere una copertura nevosa abbondante e persistente a lungo, tale da garantire una copiosità e, nello stesso tempo, una costanza durante l’anno delle acque che vi scorrono, presenta un carattere torrentizio. A mitigare la variabilità della portata vi è, comunque, la notevole estensione dei boschi che rivestono i versanti di queste formazioni montuose, davvero inusuale specie nelle loro fasce altitudinali più basse. Vi è una maggiore corrente idrica, trattandosi, ad ogni modo, di un’asta fluviale proveniente da una zona montana, al momento dello scioglimento delle nevi e si incrementa lungo il suo cammino per l’apporto di corpi idrici minori, dal Carapelle al Succida. Per via anche di questi contributi degli affluenti durante il suo lungo precorso e perciò, per l’ampiezza del suo bacino di alimentazione che, lo si ripete, non è costituito solo dai rilievi montuosi da cui proviene, il Tappino acquista nel suo tratto terminale le sembianze di un vero e proprio fiume tanto che è difficile stabilire se è esso a confluire nel Fortore o viceversa.
Pur non sfociando nel mare, bensì in un’altra asta fluviale, possiamo legittimamente ritenere il Tappino, e tale è nella coscienza popolare, un fiume. Prima di raggiungere il Fortore al ponte dei Tredici Archi, la sua vallata, fino ad allora angusta, si allarga dando luogo ad una piana alluvionale in cui si è insediato un Piano di Insediamenti Produttivi in località che identifichiamo con il nome di un esercizio alberghiero, La Rondine. In altri termini l’elemento morfologico pianura si addice ad un fiume, piuttosto che a un torrente. Il Tappino attraversa una teoria di colline che degrada verso due direzioni, nello stesso tempo, verso il mare e verso il Tavoliere (il ponte 13 Archi è a confine con la Puglia) e ciò conferma l’essenza del Molise, almeno di quello interno, di essere un paesaggio di transizione: nel nostro tratto dalla barriera appenninica alla striscia litoranea e dal mondo dei solchi vallivi trasversali alla costa che connota le regioni adriatiche della parte centrale dei Paese, Marche, Abruzzo e quella molisana, alle vaste distese pianeggianti pugliesi. Proprio per tale suo andamento il Tappino è costeggiato dal tratturo, il Castel di Sangro-Lucera, subito dopo essere entrato dentro l’abitato di Campodipietra animandone la vita in occasione, due volte l’anno, del passaggio della transumanza. La pista tratturale segue, pressappoco, il fiume fino al ponte dei 13 Archi.
C’è un punto singolare lungo questo tracciato, a ridosso immediatamente del fiume, che è la Taverna di Pietracatella. Essa è un interessante esempio di architettura fortificata, è quasi all’incrocio tra questo antichissimo nastro erboso e un’importante itinerario viario che deve essere anch’esso di origine assai remota, poi diventato una strada statale riconoscendone lo Stato il ruolo di infrastruttura di comunicazione principale, essa collega la valle del Biferno al valico di Vado Mistongo comune di Riccia e di qui al beneventano. Ci troviamo in coincidenza del ponte vicino alla Rondine, un altro a molteplici arcate (non 13!) ed in quanto ad elementi stradali aerei qui vi sono varie tipologie: quella, appunto, ad archi regolari, quella, particolarmente bella, a «schiena d’asino» a Toro alla quale si è affiancata una, in tempi recenti, paradossalmente per salvaguardare la prima, a tubi armco, particolarmente brutta, fino ai viadotti della superstrada del Tappino segni, come si conviene alle moderne infrastrutture di trasporto, molto forti nel contesto paesaggistico. Viene da osservare che, tutto sommato, gli attraversamenti del Tappino sono pochi e, di conseguenza, che i legami tra i paesi posti sui due diversi lati sono (erano?) scarsi. Questo fiume non riusciva ad essere il fulcro dell’organizzazione insediativa; vi sono centri, Monacilioni e S. Giovanni in Galdo, molto distanti dall’alveo fluviale e il secondo dei due si può definire in seconda fila poiché addirittura separato da esso da un altro territorio comunale, quello di Toro dal quale lo separa il Torrente Fiumarello che non è ortogonale al Tappino, ma parallelo. Nei nomi dei Comuni non c‘è la parola Tappino a rivelare il non riconoscersi delle comunità in esso, mentre il richiamo al fiume comincia a comparire in alcune iniziative produttive collocate nel fondovalle, la Cantina Val Tappino e la fabbrica di prefabbricati cementizi anch’essa Val Tappino.
La diga di Guardialfiera

Il Molise è una terra nei suoi lati corti, essendo riconducibile la sua forma ad un parallelogramma, che sono la fascia appenninica e il litorale, oltre che in quella specie di protuberanza che è l’alto Molise, connotata da eccezionali valenze ambientali, dal Matese alle Mainarde, entrambi parchi nazionali, alla montagna di Capracotta oggetto di una proposta di parco regionale. La parte collinare della regione compresa tra tali emergenze naturalistiche e i bacini del Trigno e del Fortore, i quali sono i lati lunghi, non ha un’identica quantità di valori ecologici. I due laghi del Liscione e di Occhito che pur artificiali si sono oggi naturalizzati cercano, in qualche modo, di colmare tale gap o, perlomeno, di ridurre le differenze in termini di pregevolezza dell’ambiente. Sul Liscione, in particolare, che è, a differenza di Occhito, interamente regionale e peraltro posto proprio al centro, collocato com’è nel tratto intermedio del corso del Biferno il quale è l’asse mediano ideale in senso longitudinale del territorio regionale, si sono riversate le aspettative maggiori per il riequilibrio qualitativo dal punto di vista ecosistemico tra i vari ambiti molisani o, quantomeno, di diminuire le distanze, ancora forti, fra di loro. In definitiva, non potendo puntare su nient’altro, cioè su nessun elemento eclatante del sistema naturale nel medio Molise, si sono affidate le speranze agli specchi lacustri, specialmente, lo si ripete, a quello del Liscione e non solo per la sua posizione geografica all’interno della parte rettangolare della regione, ma anche perché facilmente raggiungibile tramite la Bifernina, la nostra principale arteria viaria, che lo attraversa mediante viadotti per intero.
Siamo giunti al dunque, il quale è che a questi invasi artificiali andava assegnata insieme alla destinazione irrigua, a quella potabile, quest’ultima superata dall’entrata in funzione dell’Acquedotto Molisano Centrale, e a quella, in verità successiva derivante dal «decreto Berlusconi» del 2004 relativo alla difesa idrogeologica, di laminazione delle piene, anche una ulteriore, turistica. Tale attribuzione di un ruolo per lo sviluppo del territorio venne, per primo, rivendicata, dopo poco più di un decennio dalla costruzione della diga, dal Consorzio Pro Lago, l’antesignano, per certi versi, del Contratto di Lago di cui si parla tanto oggi. L’animatore fu l’ingegnere Vincenzo del Re e produsse mostre, convegni ed una pubblicazione curata dal docente universitario Alessandro Del Bufalo. Bisognerà aspettare molti anni, siamo agli inizi del nuovo millennio, per la redazione di progetti concreti finanziati da fondi europei per la fruibilità da parte di visitatori delle sponde del lago, in parte attuati e in parte no, quelli relativi alla sua navigabilità. È da dire che tramite queste opere si tende a cambiare le prospettive, è la parola giusta, con la quale si guarda questa realtà lacuale, che finora è stata quella degli scorci panoramici, cioè dall’alto, in specifico da Guardialfiera, il paese più vicino, una sorta di belvedere “spontaneo” per le vedute che si aprono sulla distesa acquosa in vari angoli dell’agglomerato.
Una delle immagini simbolo del Liscione è il ponte a schiena d’asino che appare e scompare a seconda del livello dell’acqua, il ponte della Reginella, ammirabile solo in alcuni periodi dell’anno, quelli di secca, e solo in talune annate. Esso è di epoca romana ed è detto pure il ponte di Annibale il quale non è escluso che passò di qui per raggiungere Canne dopo la schiacciante vittoria su Roma al Trasimeno; racconta Tito Livio che il condottiero cartaginese scelse di spostarsi verso est e di seguire la costa adriatica e ponti di sicuro non c’erano oltre questo in direzione del mare per attraversare il Biferno il quale verso la foce si impaludava. È, perciò, questo ponte un segno storico significativo e, nello stesso tempo la sua comparsa dal fondo del lago un’immagine dal sapore gotico (un po’ come il drago di Loch Ness in Scozia), qualcosa di fiabesco, se non stregato, che accresce l’interesse turistico. Ha una capacità attrattiva, questa volta legata all’aspetto naturalistico, il Colle Peloso con la sua lecceta e, in generale, la vegetazione del luogo. Quella tipica delle rive fluviali che doveva possedere il Biferno pure in questo tratto è ormai scomparsa poiché sommersa nella massa idrica, quindi i salici, i pioppi sulle sponde e i giunchi dei canneti dentro l’alveo, così come le formazioni boschive della fascia bassa delle pendici, ovvero roverelle, cervio, leccio e orniello, le specie arboree ricorrenti nell’agro essendo stati subissati dall’acqua invasata.
Allo stato attuale il lago ha ai suoi margini essenze vegetali che hanno poco a che fare con l’ambiente lacustre, ma piuttosto con il territorio agricolo sovrastante. Ciò che più disturba sono i rimboschimenti effettuati con conifere, piante non autoctone, per fermare lo scoscendimento del suolo nei versanti che incombono sul bacino; esse per le quali è difficile ci sia il rinnovamento al termine del loro ciclo di vita andrebbero sostituite da latifoglie e, in prossimità delle rive con alberi di legno dolce. Il Liscione (e anche Occhito) rientra tra i siti Natura 2000 e la sua rilevanza in riguardo all’ecologia è dovuta insieme all’habitat, alla fauna, soprattutto avifauna che lo frequenta. Tra gli uccelli si segnala per la curiosità che suscita la presenza dei gabbiani dovuta alla vicinanza del nostro lago con il mare e all’esistenza del corridoio ecologico rappresentato dal corso del Biferno che li collega. Si vuole spendere però una parola, prima di concludere il tema della qualità ambientale, riprendendo la questione della riforestazione a sua difesa, che seppure per le varietà arboree impiegate, lo si è detto, è criticabile è frutto di un approccio encomiabile, nel senso che nella realizzazione di un bacino idrico è indispensabile intervenire sul bacino idrogeologico, non limitarsi a progettare semplicemente quello idrico e non è solo un gioco di parole; in chiave pure turistica è necessario che si provveda al restauro paesaggistico dei fianchi della vallata che delimita l’invaso ripristinando le colture agrarie tradizionali, recuperando i sentieri, piantando siepi tra i campi e così via.

Un lago al centro del Molise
Il Molise è una regione priva di laghi naturali se non fosse per quello di Civitanova che, comunque, è stagionale. Fino agli anni ’70 del secolo scorso non ve ne erano neanche di artificiali, con l’eccezione di quello di Castel San Vincenzo il quale costituisce una singolarità pure per la funzione ad esso assegnata che è quella idroelettrica. Le realtà lacuali molisane si possono distinguere in 2 gruppi, quello dei grandi invasi e dei piccoli. Inoltre, è consentito suddividerli in base alla collocazione tra bacini idrici di media collina e, all’opposto, di tipo montano. In ambedue le ripartizioni che abbiamo proposto la contrapposizione è fra, da un lato, Liscione e Occhito, e, dall’altro, Arcichiaro, Chiauci e Castel San Vincenzo. La gran parte dei laghi, quelli maggiori e quello di Chaiuci, sono disposti nelle vallate dei principali fiumi presenti nel territorio regionale, cioè, procedendo da sud, Occhito sul Fortore, il Liscione lungo l’asta del Biferno e Chiauci nel tratto alto del corso del Trigno, mentre il resto dei laghi minori è situato su tributari, rispettivamente Arcichiaro del Biferno e quello di Castel San Vincenzo del Volturno. Questa regione dove in passato erano assenti i bacini lacustri è diventata una delle più ricche di laghi in proporzione alla sua estensione territoriale perché ricca di fiumi essendo gli invasi ottenuti dallo sbarramento delle aste fluviali.
A quest’ultimo proposito va detto che qui non c’è mai immissario come succede al Nord Italia dove sono presenti laghi naturali, perché è lo stesso fiume che entra ed esce dal bacino lacuale. È un utile raffronto questo come quello con i laghi vulcanici presenti nell’area laziale per mettere in luce le specificità dei nostri laghi. I laghi che si sono formati entro i coni dei vulcani spenti sono circolari mentre sia quelli molisani creati dall’uomo sia quelli dovuti alla natura che stanno nelle regioni alpine hanno un andamento allungato, i primi perché seguono l’andamento fluviale, i secondi in quanto occupano valli modellate dalle lingue dei ghiacciai in precedenti ere geologiche. Gli invasi sono, in definitiva, più lunghi che larghi, in qualche modo ovoidali, disposti in senso est-ovest come del resto gli stessi fiumi che li originano i quali corrono verso il mare perpendicolari all’Appennino che ha generato loro (il sub-Appennino nel caso del Fortore). Non è, però, tutto così schematico come abbiamo descritto: Occhito cambia nel tratto terminale la direzione fino ad allora seguita, rigorosamente dal monte al mare, presentando una seppur minima deviazione assecondando in questo modo il Fortore che fa nel medesimo segmento una sterzata. È inevitabile che un bacino artificiale segua pedissequamente, in maniera immaginifica, quanto fa il fiume che l’alimenta e l’attraversa: non è un atteggiamento di supina passività bensì ne è obbligato a causa della sua totale dipendenza dal corso d’acqua! Se il fiume condiziona lo specchio lacustre che ha creato, quest’ultimo dà la propria impronta al paesaggio che lo circonda e anche al clima.
La enorme massa d’acqua invasata funge, diminuendo gli sbalzi termici, quale moderatore climatico, di sicuro. La vegetazione spondale perlomeno ne subisce qualche influenza. Affermato ciò non si deve, ad ogni modo, credere che la lecceta la quale riveste Colle Peluso, al centro del Liscione, tipica macchia mediterranea che cresce se vi sono condizioni di temperatura, di luce, e di umidità simili a quelle che si riscontrano sulla costa tirrenica, ma qui siamo all’interno e poi sul versante Adriatico. Si tratta di una comunità relitta di leccio che si deve essere installata qui in qualche antica fase della storia della Terra quando la temperatura di questa parte del pianeta, se non dell’intero, era superiore o, (ulteriore ipotesi non in contrasto con l’altra) il livello del mare era più alto così da coprire quella fascia di superficie terrestre che oggi distanzia il lago di Guardialfiera dal litorale. Il Climate Change non è, perciò, una assoluta novità. Il leccio è una specie sempreverde e ciò rende sempre verde il Colle Peluso. Esso è affascinante sia per il manto vegetale sia per essere una sorta di promontorio, proteso com’è nel lago. Torniamo al paesaggio cui si è accennato sopra e rimaniamo contemporaneamente nel Liscione con riferimento, in particolare, ancora al Colle Peluso. Quest’ultimo costituisce la sponda sulla quale si appoggiano le spalle dei due viadotti che solcano in aereo, manco a dirlo, la distesa acquosa, il Molise 1 e il Molise 2. Chi percorre la Bifernina cui appartengono i viadotti in tale tratto avrà visioni sempre variate, cioè continui cambi di vedute, una volta aventi quale fondale questo rilievo, il quale stimola l’osservazione perché nasconde il pezzo successivo del bacino, un’altra volta le acque calme del lago, il verde e l’azzurro; allargando lo sguardo, poi, si gode della vista dei versanti collinari circostanti, le Terre del Sacramento, e, soprattutto, del borgo medioevale di Guardialfiera, paese natale di Francesco Iovine, il comune più vicino al lago, l’unico che si affaccia, essendo in posizione centrale rispetto al lago, pienamente su di esso.
È uno dei rari esempi nella nostra nazione di fondovalle stradale sovrastante un invaso sul quale passa nel verso longitudinale e non in quello trasversale (come fa un ponte che deve scavalcare un fiume, per capirci); nel Molise è un episodio isolato in quanto non c’è un’arteria che segue la vallata del Fortore. Occhito è perciò meno conosciuto e, di conseguenza, apprezzato del Liscione; anche la valle del Biferno, in effetti, era sconosciuta pure ai corregionali fino al momento che non venne costruita la Bifernina che è coeva della diga di Ponte Liscione. Occhito sarà, è vero, meno noto, ma proprio per la mancanza di opere antropiche che ne alterino l’immagine ha un aspetto di lago classico. Tanto il Liscione con la strada in mezzo quanto Occhito libero da manufatti che lo ingombrano sono diventate due delle principali attrattive paesaggistiche molisane, tra le più celebrate località della regione, importanti anche dal punto di vista turistico.



redazione
Si ringraziano per i testi Francesco Manfredi Selvaggi e per le foto Francesco Morgillo