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IL PATRIMONIO CULTURALE PUBBLICO

Le opere di interesse culturale di proprietà pubblica non sono poi tanto poche. Poche sono quelle in mano alla Soprintendenza la quale destina una quota rilevante dei propri fondi alle azioni di conservazione di queste che in effetti, si riducono a due, il castello di Gambatesa e quello di Venafro, ambedue autentici monumenti architettonicamente superiori a tutti gli altri edifici del demanio statale, non fosse altro che per i loro affreschi. Lo Stato oltre quelli in carico all’organo periferico del ministero della cultura ha altri beni significativi dal punto di vista architettonico tra i quali si segnala la sede del tribunale a Campobasso le cui facciate sono ripartite da colonne di puro stile dorico alla manutenzione del quale è preposto il ministero delle infrastrutture. È demaniale ma regionale il palazzo ex GIL, una delle rare testimonianze di architettura razionalista presenti nel Molise, mentre in quello provinciale vi è il palazzo Mazzarotta che ospita il museo sannitico all’origine in capo alla provincia e ora diventato museo archeologico nazionale. Vi è pure il demanio comunale nel quale rientra, rimanendo sempre a Campobasso, il celebrato castello Monforte.

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Del comune, non più di quello del capoluogo di regione, bensì di quello di Isernia e di quello di Larino sono ulteriori due fabbricati monumentali, rispettivamente il convento di San Francesco e il palazzo ducale che ospitano entrambi il municipio. Occorre mettere in evidenza che tutti i manufatti edilizi citati sono costruzioni di notevole grandezza i quali difficilmente troverebbero un privato, nonostante le loro qualità artistiche, interessato a entrarne in possesso e ciò, oltre a ragioni distributive e funzionali, perché data l’imponente volumetria è troppo dispendioso il riscaldamento dei locali tanto per abitazioni quanto per uffici e per rappresentanza. Le strutture edilizie a carico per la manutenzione del bilancio statale, se immobili iscritti tra quelli dello Stato o oggetto di finanziamento per la medesima finalità da parte dello stesso pur non rientrando nel suo patrimonio sono molteplici. Sono tanti gli stabili di valenza storico-artistica il cui mantenimento in efficienza è di competenza diretta o indiretta dell’autorità centrale le cui diramazioni sono i ministeri. Si sono citati sopra quello della cultura e quello ex Lavori pubblici e ora si aggiunge quello dell’istruzione.

Vi sono scuole in stabili storici tra i quali primeggia il convitto con annesso liceo Mario Pagano appunto nazionale; tale gruppo comprende edifici, pochi sono quelli in cui la scuola è ancora in essere, dove fino a poco tempo fa era allocata la scuola dell’obbligo a Sepino, palazzo Giacchi, e a Cantalupo, in verità un bel po’ di tempo fa, palazzo Petrecca. Come si vede l’intervento finanziario del governo centrale seppure con finalità diverse da quella della difesa delle emergenze culturali ha spesso ricadute su queste ultime e allora, sarebbe opportuno un coordinamento tra vari capitoli di spesa del bilancio statale in modo da rendere maggiormente efficace l’investimento anche in termini di riflessi sull’asset patrimoniale di valore storico del comparto pubblico. Lo Stato si occupa/preoccupa degli edifici quando sono sede di uffici statali, con il cambio di destinazione d’uso si ha la dismissione dell’immobile, non può più intervenire nonostante sia una “cosa di interesse storico”; per capirci lo Stato che oggi provvede all’efficienza del bel carcere borbonico della “capitale del Molise” non ha titolo qualora venga riconvertito in un centro polifunzionale come auspica la cittadinanza da tempo ad occuparsi della sua manutenzione, poiché non ne sarebbe più in possesso.

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Le autonomie locali nell’ottica della valorizzazione dei beni culturali, la tutela è esclusiva della Soprintendenza, possono o con fondi propri o, più di frequente, con l’assegnazione di contributi europei investire nel recupero di testimonianze antiche a rudere quali lacerti di castelli, prendi quello di Longano, o di murazioni, prendi le “mura saracene” nel medesimo comune. Niente è precluso se concorre alla messa in valore della realtà locale producendo il restauro dei “segni” del passato effetti positivi sull’attrattività turistica. È pur sempre un bene culturale seppure ne restano pochi, appunto, resti, un bene patrimoniale che in quanto tale non può rimanere improduttivo. Si dà una mano alla salvaguardia anche in maniera indiretta magari utilizzando un immobile vincolato quale sede municipale (Isernia, Larino, S. Giuliano del Sannio, Forlì del Sannio, Capracotta e così via). Ci si provò a Tufara ma il relativo progetto di riconversione del maniero longobardo in casa comunale venne giudicato troppo invasivo dal ministero perché prevedeva la costruzione ex-novo di un volume da adibire alle attività amministrative sugli spalti della struttura castellana senza, peraltro, tentare una mimetizzazione del corpo di fabbrica rendendolo, mettiamo, assomigliante ad un torrione, una sorta di ricostruzione in stile.

IL PATRIMONIO CULTURALE PRIVATO

Di castelli che sono diventati abitazioni private nel Molise ve ne sono molti, da quello di Pettoranello a quella di S. Agapito, da quello di Trivento a quello di Torella, da quello di Cercepiccola a quello di Bonefro, da quello di Casacalenda a quello di Macchia d’Isernia e l’elencazione potrebbe continuare a lungo. Solitamente appartengono a più proprietari, vedi quello di Limosano, ma vi sono casi, quello di Cerro al Volturno, in cui la proprietà è di un’unica famiglia. Diversamente da quanto ci sarebbe da aspettarsi rare sono le strutture castellane in possesso dei Comuni, i più importanti sono quelli di Campobasso e di Monteroduni, quest’ultimo un’acquisizione recente.

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I castelli sono notoriamente “cose di interesse storico” per cui sono vincolati ope legis qualora siano di enti pubblici, mentre se privati occorre la procedura di notifica del vincolo per portare a conoscenza dei possessori dell’iscrizione del loro immobile nell’elenco dei beni tutelati. Dal momento dell’avvenuto riconoscimento del valore culturale da parte della soprintendenza scattano oneri e onori. Tra i secondi vi è innanzitutto la possibilità, un sostegno “diretto”, di ricevere un contributo statale per i lavori da eseguirsi e un sostegno “indiretto” che consiste in benefici fiscali quale quello dell’esenzione di alcune imposte nelle operazioni di mantenimento del manufatto.

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Tra i primi vi sono l’obbligo di sottoporre al parere soprintendile qualsiasi modifica che si intende apportare all’organismo architettonico e, ma adesso il verso essere va coniugato non più all’indicativo bensì al condizionale perché è di una condizione quello che si sta per esporre, la stipula di una convenzione con l’organo ministeriale preposta che si sarebbe tenuti ad accettare per permettere l’accesso di visitatori all’interno del maniero, un fastidio non da poco. Ritornando ai vantaggi economici tra i quali vi è l’abolizione dell’IVA per i lavori di restauro da eseguirsi è bene segnalare il pericolo, che però qui da noi non si è mai corso, che il proprietario rinunzi a fare la manutenzione ordinaria in quanto solo per quella straordinaria la quale viene assimilata al restauro non occorre corrispondere l’IVA. Oltre ai castelli sono compresi nel patrimonio culturale di proprietà privati tutelati anche numerosi palazzotti signorili ottocenteschi come il palazzo Volpe a Boiano o il palazzo Selvaggi a Vastogirardi, il palazzo Gioia a S. Massimo è invece della parrocchia; mancano nel Molise invece i locali commerciali d’epoca, le botteghe di artigianato tradizionale o gli studi d’artisti (dello studio d’arte di Emilio Labbate scultore carovillense del XIX secolo si sa il vano in cui era ubicato dove, però, non ci sono più gli attrezzi adoperati dal maestro).

L’ammodernamento dei negozi, delle barberie, delle sartorie, dei laboratori artigianali ha portato alla cancellazione dei vecchi arredi e per gli ultimi degli strumenti di lavoro di un tempo. Concorre alla perdita delle tipiche attività del passato la trasformazione dell’economia, prendi il commercio minuto sopraffatto dalla grande distribuzione. Le farmacie, rimaste intatte come arredamento, del tempo che fu sono soggette a furti del mobilio e del vasellame di pregio che conteneva i farmaci. Sono in mano privata evidentemente i mulini tipici che numerosi costellano i corsi d’acqua i quali al giorno d’oggi non producono alcuna utilità economica per cui non vi sono incentivi che tengano capaci di invogliare alla loro conservazione, l’unica via da perseguire è, pertanto perlomeno degli esemplari più significativi, si pensi al mulino Corona a Baranello, l’acquisizione da parte di qualche ente.

Il mulino Giacchi a Sepino con il lungo canale di adduzione dell’acqua sorretto da arcate in pietra a mo’ di acquedotto romano per un periodo, limitato, è stato riattivato da un mugnaio di Matrice a scopo dimostrativo dell’industria molitoria antica, senza avere la pretesa di produrre reddito dallo stesso. Vi è, poi, il capitolo dell’archeologia industriale con gli opifici, ovviamente privati, ormai abbondantemente obsoleti, che sono destinati ad andare in malore come è avvenuto purtroppo per il lanificio Martino a Sepino. Unicamente l’ente pubblico si può accollare le spese per il recupero degli stabilimenti della protoindustria e, del resto, le società paleoindustriali che li gestivano sono ormai disciolte: a Cantalupo la regione ha finanziato la “ricostruzione” di una bellissima fabbrica di laterizi. Privati, si avverte stiamo per parlare di grandi compagnie private nate come tali o in corso di privatizzazione, sono inoltre il palazzo delle Poste nel centro del capoluogo regionale

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la cui architettura è informata agli stilemi dell’ecclettismo storicistico e la sede di Banca Intesa già Banco di Napoli, anch’esso centrale a Campobasso la quale è in stile razionalista; queste società private hanno i mezzi finanziari per garantire la conservazione ai propri stabili. Si è appena nominata la parola banca e allora vengono in mente le meritorie iniziative della Banca Popolare del Molise a sostegno della divulgazione culturale con la stampa del volume di A. Trombetta sull’Arte Medievale nostrana, rilevando altresì che per i propri uffici aveva optato non per un immobile antico bensì su un edificio moderno progettato da P. Portoghesi.

LE INTEGRAZIONI ALLE OPERE MONUMENTALI

Esistono diversi generi di restauro, qui ci occupiamo prevalentemente del restauro degli edifici allo stato di rudere. Cominciamo subito con la categoria di intervento chiamata del “minimo intervento” la quale, a volte, è equivalente a “nessun intervento” per esplicitare la quale ci avvarremo come esemplificazione delle mura urbiche di Altilia, il quadrante del quadrilatero murario che ci interessa è quello sud-est. Quel che rimane qui della murazione originaria è la sua parte inferiore per cui essa si presenta bassa, e ciò a causa del crollo della sua parte superiore e nel contempo inclinata, la causa di entrambe le cose, la ridotta altezza e la sua inclinazione, forse è stata un terremoto. È un’immagine che si è consolidata nel tempo e costituisce qualcosa d’effetto, una visione singolare; non si capisce il perché della costruzione a lato di quello preesistente di un muro ex-novo con le medesime caratteristiche formali dell’antico il quale per fortuna non è stato rimosso. Il nuovo muro ha la medesima altezza di quello sopravvissuto ed è raddrizzato rispetto a questo e non si capisce il perché, tanto valeva visto che è un’operazione di sostituzione edilizia non di restauro rifarlo integralmente, identico ai tratti di muratura, quello in prossimità di Porta Boiano, pervenutici intatti.

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Tutto quello che si era fatto in passato sulla muratura rimasta pendente è stato ben poco, in verità poco quanto basta; l’operato consiste nella protezione della sommità dell’opera muraria pervenutaci con materiale simile al cocciopesto e un telo di tenuta per evitare la penetrazione dell’acqua piovana al suo interno, nella sua “carne viva”, né più né meno. Una seconda categoria è quella della “reintegrazione”, una tipologia di azione restaurativa che vediamo attuata, in modo significativo, nella Porta Benevento. Qui ciò che è stato reintegrato è assolutamente preponderante rispetto a quanto c’è di superstite. La predetta porta urbica appare essere un modello, in cemento, a scala 1:1, una specie di replica della Porta Boiano, della porta-tipo di Altilia le cui porte sono uguali fra loro. La Porta Benevento manca del frontone (e lì a terra e in attesa di essere ricollocato in cima all’arco) e vi sono inseriti pochissimi, appunto, inserti, rimasugli della porta che vi doveva essere in origine.

Una terza categoria è la “ricomposizione” che è quella, la si cita quale esempio, che si potrebbe eseguire dei ruderi della chiesa di S. Maria di Guglieto a Monteverde fra Vinchiaturo e Mirabello. Non la si è tentata finora, salvo un tentativo fatto nella zona absidale, e, però, sarebbe opportuno tentarlo perché la sua riduzione in frammenti sparsi non consente la benché minima comprensione delle fattezze che essa doveva avere; da ricordarsi che il restauro ha come obiettivo anche quello della leggibilità del bene, del rendere facile la sua lettura, non ci spinge a dire che è anche quello di permettere il godimento dei valori artistici che è un’altra cosa, una faccenda più complessa, non lo si può pretendere da un intervento di mera ricomposizione. La scelta di non ricomporre alcunché, neanche ciò che sarebbe assai facile rimettere su sembra dettata da una concezione estetizzante dell’approccio all’antico. L’ottica preromantica del Foscolo con i suoi Sepolcri vedrebbe un campo di rovine come un camposanto.

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Secondo le teorie rigoriste del restauro architettonico è apprezzabile in sé la rovina rimandando essa al disfacimento delle opere dell’uomo dovuto al trascorrere del tempo. Di categorie ce ne sarebbero di ulteriori ma si ritiene di non dover proseguire nella loro elencazione la quale ha il sapore, per l'appunto, di categorizzazione del restauro e passare all’esame di alcuni temi connessi alla conservazione del patrimonio storico allo stato ruderale; per ogni caso si dovrà individuare il più opportuno criterio o categoria (guarda un po') di restauro. Un primo caso è quello di rovine in stato di abbandono, rovine in rovina per così dire, le quali si dividono in due gruppi. Il gruppo numero 1 è quello di vecchi scavi abbandonati e l’esempio è la villa romana di Matrice nei pressi di S. Maria della Strada la cui escavazione venne iniziata alcuni decenni fa da archeologi inglesi e mai completata per cui ora ciò che era riemerso dalla terra è ricoperto nuovamente da terra oltre che da vegetazione spontanea.

Il gruppo numero 2 è quello delle evidenze archeologiche mai indagate, né a fondo né in superficie, come quel che resta in vista, una piccola abside, del monastero di San Nicola sul Matese in località giustappunto Fonti di S. Nicola. Sta in effetti in un vallone impervio ma è raggiungibile con un sentiero comodo e oggi che tanto si punta sull’escursionismo sarebbe un’emergenza culturale da valorizzare per promuovere possibili itinerari montani. Nei punti visitati dai turisti, si pensi alla cinta fortificata sannitica che è in collegamento con il santuario di Pietrabbondante oppure a Casalpiano con ciò che rimane di una villa appartenente ad una matrona romana affiancata alle consistenti tracce, assai imponenti di una chiesa medioevale oltre che a un bell’edificio di culto romanico le testimonianze dell’antichità stanno lì linde e pinte, ben curate, mentre altrove sono ignorate o addirittura invisibili, a rischio di deperimento, “figlie di un Dio minore”. C’è poi l’archeologia industriale quale nuova frontiera dell’interesse archeologico, ma è tutta un’altra storia, un problema più di economia forse che di cultura, anche se spettacolari sono alcuni manufatti della paleoindustria come la Cartiera di Sepino.

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Il requisito della verticalità per il restauratore, non solo della specializzazione

Il lavoro del restauratore richiede una certa versatilità tante sono le situazioni in cui si può imbattere. Una di queste, in verità inconsueta, è quella di opere in cui la pittura, manuale, e l’architettura sono strettamente legate fra loro. Si prenda la celeberrima Cripta dell’Abate Epifanio dove il ciclo di affreschi avvolge l’ambiente voltato, cioè il dipinto copre tanto le pareti che le volte. A Roccamandolfi l’insieme croce viaria-basamento, posta in un vano semiaperto delimitato da un arcone, è sotto-posto ad una abitazione, qui il rapporto è tra architettura e scultura. Salvare l’una, l’architettura, senza salvare l’altra, sia essa scultura o pittura, non ha senso. Sono in relazione fra loro anche l’architettura, l’alzato, e il pavimento, la pianta, specie se è a mosaico, un’altra espressione artistica, il quale acquista maggiore significatività se letto insieme al volume architettonico che lo contiene. L’arte musiva applicata ai piani di calpestio la si ritrova quando si tratta di pavimentazioni di stanze di rappresentanza e allora sarebbe opportuno ricostruire la sagoma dell’ambiente cui apparteneva; perciò al posto della solita tettoia a protezione degli scavi, in corrispondenza del lacerto di impiantito mosaicato della villa rustica di Canneto sarebbe opportuna una ricostruzione “stilizzata” del vano in cui era inserito completo di copertura.

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Il caso della cattedrale di Boiano è un po' particolare pur rientrando nella medesima tematica, quella della compenetrazione tra “scatola” edilizia e apparato decorativo sia esso di tipo pittorico sia in stucco cioè le modanature architettoniche, dai fregi alle lesene ai capitelli e così via; è una situazione speciale perché il danneggiamento che ha subito è la perdita irreversibile di parte delle decorazioni, reversibili invece sono i danni all’architettura. In altri termini, contrariamente, l’esatto contrario, alla casistica descritta prima, il contenuto è parzialmente compromesso, mentre il contenitore è salvabile. Al crollo durante il II conflitto mondiale di un pezzo del tetto si può rimediare, rifarlo con la medesima forma di quello originario, è un’impresa relativamente facile, si è trattato di riprodurre delle cose geometriche e la geometria, lo si sa, è una branca della matematica. Per i dipinti sulle pareti interne è diverso, se non si sono conservate immagini fotografiche accurate degli stessi è difficile persino farne delle copie; da qualche decennio le superfici dei muri all’interno lasciate nude nel dopoguerra sono state rivestite, a tratti, da affreschi i quali sostituiscono le pitture murali del Musa andate perse con la guerra.

La facciata della cattedrale è stata rivestita con lastre di travertino, una stesa uniforme, mentre prima era ripartita da una sorta di marcapiano posto a metà della stessa. Con la chiesa cattedrale di Boiano contemporaneamente chiudiamo il capitolo della congiunzione fra le varie arti visive, architettura, pittura e scultura e apriamo quello della rimessa in piedi di monumenti distrutti in un sol colpo, all’improvviso a causa di bombe, terremoti, frane, incendi. Gli immobili storici come del resto il resto degli immobili sono oggetto di deterioramento dovuto ad azioni prolungate nel tempo, come la comparsa di una lesione sulla muratura che man mano si allarga favorendo l’ingresso nel corpo del muro di acqua piovana per dirne una. Sul processo progressivo di degrado si può intervenire, sui fenomeni distruttivi repentini si può poco. La cattedrale boianese è esemplificativa di un’ulteriore questione che si aggiunge alle due elencate sopra che è la seguente: essendo, in condivisione con Campobasso, cattedra vescovile occorreva che non si interrompesse per lungo tempo lo svolgimento di riti religiosi, ne andava della vita della diocesi, per cui si provvide subito, ritornata la pace, a garantirne la funzionalità.

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Ciò pur con i limiti descritti sopra del mancato restauro “stilistico” ovvero in stile assumendo quali caratteri artistici quelli desunti da analoghe architetture essendo impossibile applicare i criteri del restauro “filologico” in quanto erano carenti le conoscenze su questa specifica architettura. La subitaneità della riattazione della cattedrale del centro matesino è in contrasto con i lavori di restauro della chiesa di S. Maria delle Monache a Isernia i quali si protraggono ancora oggi nonostante siano trascorsi ottanta anni dalla fine della guerra ed è perché non c’è un’urgenza legata alla pratica del culto in tale spazio sacro. Non è detto, comunque, che sempre si sente il bisogno di rimettere in sesto edifici malridotti a causa di qualche evento traumatico accaduto all’improvviso. Il tragico terremoto del 2002 ha prodotto il venir giù della scuola di S. Giuliano di Puglia con la morte degli alunni di una classe: il dolore per la perdita della scolaresca non lo si può risarcire in alcun modo tanto meno risarcendo l’edificio scolastico. Così si è deciso di non riedificare la scuola e in quel sito realizzare il “parco della memoria”, qualcosa che assomiglia a quanto si è fatto a New York nel sedime delle Torri Gemelle.

Nel restauro possono essere previste integrazioni al bene culturale

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Le tematiche del restauro sono tante, qui ci limitiamo a vederne alcune. La prima è quella dell’aggiunta o, viceversa, della sottrazione di parti al bene architettonico. È aggiungere quello che si fa quando si affiancano all’immobile scale metalliche ai fini della prevenzione incendi; ciò è quanto si intendeva fare in un fronte secondario che volge sul giardino al Museo della Fauna Appenninica di Castelsanvincenzo, un edificio tradizionale, e poi non è stato fatto. È un corpo, anche se minimo, aggiunto la rampa che si deve affiancare al supermercato allorché esso sia rialzato da terra per il superamento delle barriere architettoniche, un’altra normativa recente come quella sull’antincendio; ben riuscito è lo “scivolo” realizzato all’entrata del Tribunale di Campobasso con la sua bella balaustra in pietra istoriata. Sono disposizioni cogenti entrambe al cui rispetto si devono piegare le esigenze di conservazione dell’integrità dell’architettura e anche del paesaggio urbano a volte, qualora non si riesca a minimizzarne la visibilità, collocando rampe o scalinate sul retro dello stabile. Va, comunque, considerato per tranquillizzare i “puristi” della tutela che si tratta, di nuovo rampe o scalinate, di manufatti facilmente rimovibili e la possibilità di rimozione è uno dei principi del restauro.

Di minore impatto ma di una certa difficoltà di gestione trattandosi di un macchinario è il servoscala apposto all’esterno della sala convegni ricavata nel sottotetto della chiesa del Beato Stefano a Riccia per superare i gradini di una gradinata urbana. Una simile attrezzatura è ricoverata, quando non è in funzione, in uno stipo ricavato nel basamento della chiesa di S. Leonardo di Campobasso. Quando è stato possibile, è il caso della chiesa di S. Silvestro a Civitanova, si è installato un ascensore in un vano del piano terraneo che permette ai disabili di raggiungere dalla strada il piano della chiesa. È bene precisare che se gli ausili per i portatori di handicap possono essere collocati all’interno di un fabbricato le scale antincendio devono stare necessariamente all’esterno. Un diverso tipo di aggiunta è quello connesso al bisogno di ingrandimento del volume esistente che può verificarsi in un edificio a uso pubblico; nel capoluogo regionale ne sono stati interessati il Municipio con un allargamento in pianta per ciascuno dei suoi livelli e il Presidio Ospedaliero con una sopraelevazione.

È da dire per quanto riguarda la sede municipale che in seguito con l’emersione di nuovo bisogno di superficie le attività amministrative si è optato invece che ad un nuovo ampliamento del palazzo comunale alla dislocazione altrove, prendi l’Anagrafe a corso Umberto, di reparti che erano in sofferenza di spazi idonei. A proposito adesso dell’ex Cardarelli che si è trovato a ospitare l’Arpa si segnala che mentre la Direzione di quest’ultima è rimasta in centro, a via Petrella, per i suoi laboratori d’analisi è stata costruita a Selvapiana una struttura adeguata a tale funzione. È chiaro che con queste autentiche protesi si è modificata in maniera forte l’immagine di queste architetture peraltro entrambe di notevole valenza estetica poiché espressioni dello stile dell’ecclettismo storicistico affermatosi nel XIX secolo. La scelta compositiva che adottarono i progettisti di tali espansioni dei manufatti architettonici storici fu quella di differenziare in modo drastico in vecchio dal nuovo, forse pure eccessivamente perché il risultato ottenuto è quello di una dissonanza accentuata.

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Da un lato è giusto, secondo le regole del restauro, distinguere l’antico dal moderno, ma dall’altro lato, sempre sulla base dei decaloghi del restauro, è opportuno che non vi sia una contrapposizione troppo stridente. Ambedue i corpi di fabbrica che si accostano fra loro, l’originario e l’integrazione, devono, ulteriore principio del restauro, essere testimonianze del proprio tempo, per la seconda allo scopo di denunciarne la modernità, tanto nel Municipio quanto nel Presidio Ospedaliero, si è puntato su materiali, vetro e metallo, innovativi. Finora si è parlato di aggiunte e ora, invece, tocca alle sottrazioni le quali sono in numero più limitato, di seguito ne citeremo due solamente. La prima è la demolizione del serbatoio idrico che si sovrapponeva ad un pezzo del castello di Vastogirardi la cui forma rimandava alla Torre Velasca di Milano; esso era diventato un “segno” caratteristico di questo centro altomolisano. La seconda è quella della cosiddetta liberazione di un monumento il quale, nel caso in ispecie, è la campobassana chiesa di S. Mercurio con la rimozione del volume soprastante; l’intervento allo stato attuale risulta monco in quanto la copertura dello spazio sacro è ancora allo stadio di opera provvisoria. 

Rientra nelle sottrazioni l’abbattimento di case effettuato nel centro storico di Campodipietra, l’eliminazione della schiera edilizia fronteggiante la chiesa parrocchiale per metterne in evidenza la facciata baroccheggiante; effetto secondario di questa demolizione del fronte edificato è stato quello di far emergere alla vista il “vuoto” dentro l’isolato antistante la struttura religiosa, che da corte è diventato una specie di piazza. Una sottrazione che si potrebbe definire a fin di bene e che, però, ha alterato la visione della “faccia” dell’architettura ecclesiastica, molto mossa con le sue sporgenze e rientranze le quali danno vita ad effetti chiaroscurali che si apprezzano meglio con una visione “radente”, quella cui obbligava lo stretto vicolo preesistente e che invece si appiattiscono guardandola frontalmente, dallo slargo che si è venuto a determinare. Rientra tra le sottrazioni, infine, un episodio doloroso, non di certo esito di una volontà progettata il “buco” di piazza X Settembre nel nucleo antico di Isernia causato dai bombardamenti del 1944.

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